Leiser Schwamenthal, Alice Redlich e la loro famiglia
Clusone – Gromo
Scheda di famiglia e percorso di internamento
Leiser Schwamenthal (IG), nato a Vijnita/Wizhnitz (Bucovina, Impero Austro-Ungarico ora in Ucraina) il 27 aprile 1900, con la moglie Alice Redlich (IG), nata a Purkerrsdorf (A) il 16 settembre 1908, il figlio Riccardo (IG), nato a Vienna (A) il 21 aprile 1937, e la madre Ilona Ungar Redlich (IG), nata a Diveny (H) il 28 febbraio 1885; nel 1939 giunse in Italia Alice con Riccardo e trovò ospitalità a Milano da parenti, poco dopo fu raggiunta dal marito e dalla madre; Leiser fu dapprima internato in data imprecisata a Campagna (SA) dove era presente il 16 settembre 1940, mentre le donne e il figlio furono internati il 23 luglio 1940 a Ferramonti, dove Leiser li raggiunse dopo il 25 febbraio 1941. Furono confinati prima a Trescore Balneario e subito dopo, il 2 ottobre 1941, a Clusone e poi a Gromo il 31 maggio 1942, dove erano presenti al settembre 1943. Il 2 gennaio 1944 nasce ad Ardesio Liliana.
(Capitolo di riferimento: Gli “internati liberi” in provincia di Bergamo / Fuggiaschi e clandestini)
Gli Schwammental avevano un avviato negozio di dolciumi a Vienna ed erano fuggiti dopo le prime persecuzioni naziste evitando di poco l’internamento in Austria[1]. Giunsero in Italia con un visto di transito alla fine del 1939 a Milano. II capofamiglia Leiser fu arrestato a Milano nel giugno del ’40 e portato a S. Vittore in attesa di essere espulso e ricondotto in Austria. Fu invece internato a Campagna in luglio e poi a Ferramonti, dove la famiglia si ricongiunse alla fine di febbraio del 1941. Le cattive condizioni climatiche del campo di concentramento li spinsero a chiedere l’internamento libero: tornarono così al nord, a Clusone, nell’autunno del ’41. Nel maggio 1942, dopo varie ipotesi, anche la famiglia Schwammenthal fu trasferita a Gromo dove abitavano presso la casa della signora Angelina Giudici; Leiser nel ’43 si spostava nell’alta VaIseriana commerciando illegalmente i tessuti che gli erano affidati da negozianti di Ardesio, era in possesso di una carta di identità falsa con una fotografia molto probabilmente uscita dal laboratorio del fotografo Cristilli di Clusone[2].
Il sussidio non era sufficiente a garantire la sopravvivenza, restarono però vane le richieste di aumento avanzate da Leiser Schwamenthal e da un altro internato a Clusone, Davide Joskovic, come comunicò al podestà di Clusone la Questura di Bergamo in data 29 novembre 1941: “Le domande avanzate dagli internati in oggetto, intese ad ottenere un aumento del sussidio giornaliero non possono essere accolte.”[3]
In queste condizioni la vita degli internati era piuttosto dura, come ci racconta Alice Redlich-Schwamenthal[4]:
Era inverno allora, l’inverno del quarantatré era molto freddo, gli appartamenti, le stanze delle case erano molto fredde e allora si andava delle volte al caffè, non avevamo dei soldi da spendere ma i proprietari erano molto buoni, comprensivi, eravamo magari in tre a prenderci un caffè e loro capivano che andavamo là per trovarci, per scaldarci e non dicevano niente.
Dopo l’occupazione tedesca della provincia gli internati di Gromo si resero conto del pericolo che correvano e gli Joskwitz fuggirono e riuscirono a rifugiarsi in Svizzera, i Krys invece erano troppo anziani per poter tentare la fuga. Per gli Schwamenthal il problema era diverso: se Leiser, il figlio Riccardo di sei anni e la madre di Alice, Ilona Ungar, che ne aveva cinquantotto, avrebbero potuto affrontare un viaggio anche disagevole, Alice no: era in avanzato stato di gravidanza, non ce l’avrebbe fatta. Decisero come misura precauzionale di portarsi in una delle frazioni di Ardesio, Botto Alto, ancora oggi quattro case e una chiesetta poste su un poggio da cui si domina il fondovalle. Una sera che erano scesi a Gromo per recuperare un po’ dei loro abiti, li intercettò il maresciallo dei carabinieri che li invitò a tornare, racconta Alice[5]:
“Ma perché vi nascondete lassù, poi lei,- [rivolto] a me – in questo stato. Venite giù, non c’è nessun motivo di avere paura”. E io dicevo: “Non ho paura degli italiani, ho paura dei tedeschi”. E lui diceva: “Vi do la mia parola qua davanti a dei testimoni. – c’era la padrona di casa, una signora vecchia con le sue figlie – Vi do la mia parola che se ci sarà qualcosa in giro, io vi avvertirò in tempo”.
Il maresciallo si era dimostrato accomodante ed elastico nel trattamento delle famiglie ebree, non aveva ostacolato la fuga degli Joskovitz, non doveva avere simpatie per l’occupante tedesco, si sentiva però legato all’autorità italiana e alla sua gerarchia di comando e quando arrivò l’ordine di arresto degli ebrei si mosse subito con solerzia per adempiere ai suoi doveri. La chiave del comportamento del maresciallo sta tutta in quella frase urlata ai vecchi coniugi Krys e ad Alice e sua madre “Avevate tutto il tempo per scappare, ma adesso io tengo gli occhi bene aperti. Adesso non provateci neanche, perché ci andrò di mezzo io.” Credeva veramente il maresciallo che la cattura degli ebrei fosse solo finalizzata al loro concentramento e non alla deportazione, come aveva detto loro? Difficile saperlo: reduci dalla campagna di Russia avevano raccontato cosa avevano visto fare agli ebrei dai tedeschi, diversi erano tornati ai loro paesi nelle nostre valli e a Gromo almeno uno di questi reduci era tornato.
Alice aveva detto al maresciallo che Leiser si era recato nel bosco a far legna, i carabinieri avevano quindi ritenuto di attendere il suo rientro, contando sul fatto che senza il marito non sarebbero fuggite. Alice si dimostrò però più abile del maresciallo, riuscì ad eludere la sorveglianza del carabiniere rimasto a piantonarle e a fuggire con la madre e Riccardo. Trovarono un primo rifugio in una cascina ad un chilometro dal paese, Leiser quella mattina non era andato nel bosco, ma ad Ardesio per affari, Alice riuscì a farlo avvisare di non rientrare e nascondersi e il giorno dopo, guidati dal un ragazzo del posto, lo raggiunsero attraverso un sentiero impervio, ma ben nascosto nel bosco. La casa che aveva dato rifugio a Leiser non era però posto da fermarsi: posta sulla strada di fondovalle era troppo esposta alla curiosità anche solo della gente e delle truppe di passaggio, trovarono rifugio in una casa in mezzo al bosco raggiungibile da un sentiero che si staccava dalla strada per Valcanale. Era una sistemazione misera: una stalla non più usata in una casa maltenuta, dove abitava un’anziana signora coi suoi due figli: è in questa stalla che il 2 gennaio 1944 nacque Liliana, con l’assistenza dell’ostetrica di Ardesio, che ne omise la denuncia in comune per non rivelare la loro presenza.
Dopo una decina di giorni però se ne dovettero andare: circolavano voci in paese di rastrellamenti, rappresaglie, di ebrei nascosti a Valcanale, i proprietari avevano paura. Il nuovo rifugio fu a Botto Basso di Ardesio. Leiser cercò di riprendere la sua attività clandestina di commercio di tessuti e si accordò con un signore di Gromo che conosceva bene: era soprannominato Trifola, si trattava comunque di borsa nera e Trifola venne scoperto dal maresciallo con i tessuti e si lasciò sfuggire la loro provenienza[6]:
E allora l’hanno portato alla caserma di Gromo e il maresciallo ha detto: “Bene. Una volta gli ebrei mi sono scappati. Adesso non me li lascio più scappare, però tengo qua anche te e domani mattina andiamo a prendere questi ebrei e tu ci fai vedere dove sono, però intanto stai qui in caserma”. Allora questo Trifola si è messo a urlare e sbraitare: “Io devo stare chiuso qua, io, per colpa di quegli ebrei, come mai e perché? Eh, no…”. C’era a Gromo una signora molto anziana che andava nella caserma, faceva là le pulizie, preparava da mangiare per loro e lei, mentre lavorava là, ha sentito gridare quel Trifola e ha capito cosa stava succedendo.
Forse il Trifola si era messo a urlare proprio per farsi sentire; la signora fece subito avvertire il calzolaio Giudici di Ardesio, noto per le sue posizioni antifasciste, che a sua volta provvide ad avvisare gli Schwamenthal, un’altra rapida fuga a Piazzolo sopra Ardesio[7]:
Al momento anche gli abitanti di Piazzolo, era gente molto brava con cui dopo abbiamo fatto grande amicizia, ma al momento erano sorpresi e non sapevano cosa fare. C’era una ragazzina di tredici o quattordici anni che d’un tratto disse: “Ma a casa mia c’è posto, volete venire? Venite qua a casa mia”. Allora qualcuno ha detto: “Ma… tua madre dov’è? Tua madre sarà d’accordo?”. “No, mia madre non c’è, è via a Clusone”. “Ma allora, – dicevano quelle persone – tu come fai a prendere in casa della gente senza il permesso di tua madre?”. E questa ragazzina disse: “Se mia madre viene a casa e sente che qualcuno ha bisogno di aiuto ed io l’ho rifiutato, se la prenderebbe a male. Magari mi darebbe delle botte…”. Questa ragazzina si chiamava Eliana e la madre, che è morta recentemente, si chiamava Clorinda Fornoni. Era gente che lavorava in Francia e da poco tempo erano tornati ad Ardesio. In effetti quando è tornata, la madre ci ha dato il benvenuto e per qualche giorno ci siamo fermati in casa loro e dopo siamo andati in un’altra casa sempre a Piazzolo. Siamo rimasti a Piazzolo circa due mesi, forse fino a giugno.
Anche Piazzolo diventa però insicuro: fu sempre il calzolaio Giudici che li informò che erano stati scoperti e il giorno dopo sarebbero arrivati per arrestarli. La fuga, aiutati da alcuni abitanti di Piazzolo, li portò su una frazione ancora più sperduta e in quota, Ave di Ardesio, poco sotto il crinale verso Valzurio, dove vennero ospitati in una cascinetta poco lontana dal paese, “La Masù”[8]:
Siamo stati là da maggio fino a ottobre. Fino a che il tempo non è diventato brutto, ma in luglio, credo, c’è stato un rastrellamento. I tedeschi hanno fatto un rastrellamento. Eravamo stati avvertiti che i tedeschi venivano su da Clusone, da Ardesio, avevano incendiato Valzurio e insomma venivano dalle parti dove eravamo noi e allora avevamo paura che se passavano vicino a questa stalla ci avrebbero visto. Oltre a noi c’erano due signore che avevano il bestiame e allora una di queste ci ha fatto vedere… ha portato me e papà proprio in mezzo agli sterpi, tra i sassi c’era una grande buca e ci ha fatto nascondere in essa. Poi ci ha coperto con delle frasche e dell’altro e ci ha detto di stare là tutto il giorno. Tu non ti distinguevi dagli altri bambini che c’erano in giro. Avevi i pantaloncini con su le pezze, parlavi bene bergamasco, eri pelato con i capelli come gli altri ragazzi. Liliana era piccolina e l’hanno messa in una culla e alla nonna una signora ha fatto indossare un suo vecchio grembiule ed ha messo un fazzoletto in testa e le ha detto che se fossero passati i tedeschi, non avrebbe dovuto aprire bocca, perché la mamma parlava molto male l’italiano. E così siamo stati lì tutto il giorno. Finalmente alla sera ci avvertirono che i tedeschi erano andati via.
Verso ottobre la figlioletta Liliana cominciò a star male, il dott. Moioli di Ardesio salì a visitarla: Liliana aveva la difterite; il medico le prestò le prime cure, ma per salvare la bambina era necessario il ricovero in ospedale. Alice decise di rischiare, il viaggio andò bene, non incappò in nessun controllo. All’accettazione dell’ospedale dichiarò “No. Non ho nessun documento, io vengo da Roma, sono stata sfollata da Roma a Milano. A Milano sono stata sinistrata. Ho qua la bambina moribonda. Non vi basta?”. Dopo la diagnosi però alla suora del reparto dovette spiegare la situazione: la malattia era infettiva e la suora avrebbe dovuto avvertire il comune, sarebbe stata la fine. La suora[9] non solo non avvertì il comune, ma fece in modo che Liliana fosse isolata in una stanza con due letti, il secondo ospitò Alice. Liliana guarì, Alice poté tornare con la bambina, il viaggio anche questa volta non ebbe inconvenienti e poterono raggiungere Ave, era ormai il gennaio del 1945.
Finita la guerra gli Schwamenthal dovettero decidere dove andare. Scartata l’idea di tornare in Austria, dove non avevano più niente, nemmeno gli amici, o di emigrare clandestinamente in Palestina, decisero di stabilirsi a Bergamo, dove Leiser avviò un’attività commerciale nel campo dell’abbigliamento. Leiser è morto a Bergamo nel 1981, Alice nel 1991.
Nell’agosto 1986 il figlio Riccardo raccolse, registrò e trascrisse il suo racconto, poi pubblicato sulla rivista dell’Isrec di Bergamo “Studi e ricerche di Storia contemporanea” n. 28 del dicembre 1987 e on line sul sito dell’ANED.
[1] Cfr. Riccardo Schwamenthal, (a cura di), Alice racconta – Una famiglia ebrea in fuga dai nazifascisti da Vienna a Ferramonti a Bergamo, www.deportati.it/librionline/default.htlml, sito dell’Aned, formato pdf liberamente scaricabile, p. 7.
[2] Cfr. Riccardo Schwamenthal, Alice racconta, op. cit., p. 14 e Mino Scandella, Ricordate che questo è stato, op. cit., pp. 51 e 65-66.
[3] Isrec Bg, carte Schwamenthal, Questura di Bergamo, lettera al Podestà di Clusone in data 29 novembre 1941.
[4] Cfr. Riccardo Schwamenthal, Alice racconta, op. cit., p. 12.
[5] Cfr. Riccardo Schwamenthal, Alice racconta, op. cit., p. 15.
[6] Cfr. Riccardo Schwamenthal, Alice racconta, op. cit., p. 19.
[7] Cfr. Riccardo Schwamenthal, Alice racconta, op. cit., p. 19.
[8] Cfr. Riccardo Schwamenthal, Alice racconta, op. cit., p. 20.
[9] Non sappiamo il nome di questa suora, era però dell’ordine delle suore di Carità delle S.S. Capitanio e Gerosa, dette anche suore di Maria Bambina, che operavano in ospedale: le suore erano un elemento essenziale nelle funzioni dell’ospedale e operavano come vere caporeparto oltre che come infermiere.