La famiglia di Guido Levi
Ambivere
Scheda di famiglia
Guido Levi, nato a Modena il 05 aprile 1891, la moglie Emma Bianca Tedeschi, nata a Firenze il 13 febbraio 1887, le figlie Clara, nata a Cesano Maderno il 1 marzo 1929, Laura, nata a Cengio l’11 settembre 1922, Nora, nata a Cengio il 9 dicembre 1920 e le sorelle di Guido: Elda Levi, nata a Modena il 13 agosto 1884 e Lia Marta Levi, nata a Modena il 23 marzo 1888, la sorella di Emma Bianca: Ada Tedeschi.
(Capitoli di riferimento: Il censimento degli ebrei nella provincia di Bergamo / Gli sfollati: nuove presenze ebree italiane nella provincia / Arrestati e deportati dal carcere di Bergamo)
Se avessero chiesto a Guido Levi prima del novembre 1938 se era ebreo, probabilmente avrebbe risposto di no: non aveva mai fatto parte di comunità israelitiche, anzi le sue scelte erano sempre state indipendenti dalla sua origine. Italiano, quello sì e patriota pure, fascista anche.
Si era laureato in chimica e farmacia presso I’Università degli Studi della sua città, Modena, il 2 luglio 1913[1], nel 1914 era stato arruolato come sergente allievo farmacista militare di complemento. In previsione dell’ingresso in guerra aveva chiesto di essere trasferito ad un’unità combattente e aveva partecipato alla Grande Guerra come sottotenente farmacista all’Ospedaletto da Campo numero 58 in zona di operazione dal 24 maggio 1915; promosso tenente farmacista il 13 febbraio 1916, era passato all’Ospedaletto da Campo numero 37, sempre in zona di operazione. Dal 19 marzo 1918 era stato mandato all’Ospedale militare di Genova. Il patriottismo derivava probabilmente dall’educazione familiare: anche il fratello maggiore, Carlo, docente di fisiologia sperimentale presso l’università di Modena, il 24 maggio 1915 era partito volontario quale maggiore medico, aveva fatto tutta la campagna di guerra in zona di operazione ed era anche stato insignito della Croce di Guerra; ne era uscito con la salute gravemente minata ed era morto nel dicembre 1920.
II 29 ottobre 1919 Guido si era sposato solo civilmente, a Milano, con Emma Bianca Tedeschi: non avevano voluto contrarre il matrimonio israelitico, con la conseguente estromissione dalla religione e dalle comunità israelitiche. Guido aveva trovato lavoro nell’industria chimica, dapprima in provincia di Savona presso la S.I.P.E. di Cengio (poi assorbita nell’A.C.N.A.), qui erano nate Nora il 9 dicembre 1920 e Laura l’11 settembre 1922. Dopo un breve passaggio allo Stabilimento chimico DEMA di Genova era tornato alle dipendenze dell’A.C.N.A. presso lo stabilimento di Cesano Maderno (MI), qui era nato Alberto il 12 novembre 1926 (a ulteriore conferma del distacco dei Levi dall’ebraismo il piccolo Alberto non venne circonciso). Alberto purtroppo morì a poco meno di un anno, il 31 luglio 1927, e venne seppellito con rito cattolico. A Cesano era nata anche Clara il 1 marzo 1929. Guido e la moglie non erano più ebrei, ma nemmeno si erano battezzati, anche le figlie non erano state battezzate, ma avevano ricevuto un’educazione religiosa cattolica frequentando le scuole presso istituti religiosi: dapprima le suore Orsoline di Saronno e poi le scuole della Beata Capitanio a Bergamo. Nel 1931 Guido decise di compiere il passaggio dal lavoro dipendente all’attività professionale e acquistò la farmacia Fumagalli ad Ambivere, dove la famiglia si trasferì negli ultimi giorni di dicembre.
Come molti patrioti reduci di guerra Guido aveva maturato simpatie per il fascismo, non sappiamo se avesse aderito al partito fascista precedentemente, di sicuro si iscrisse al partito ad Ambivere, dove faceva parte anche della MVSN[2]; il 26 novembre 1935 era stato nominato per alcuni mesi presidente dell’Opera Nazionale Balilla, aveva collaborato con entusiasmo alla campagna della raccolta di “oro per la patria”, lanciata dal regime all’inizio della guerra per la conquista dell’Etiopia, e aveva sollecitato la gente a donare le fedi nuziali. Con decreto prefettizio il 2 aprile 1936 era stato nominato membro della Congregazione di Carità di Ambivere, carica che mantenne fino al novembre 1937. Era stato anche nominato membro della commissione comunale per la disciplina del Commercio in rappresentanza dei lavoratori intellettuali, carica che dovette abbandonare il 3 febbraio 1939. Nel 1938 Guido e la famiglia avevano deciso di completare il loro percorso religioso di abbandono dell’ebraismo convertendosi al cristianesimo. Il 30 settembre erano stati battezzati nella cappella vescovile dal vescovo Adriano Bernareggi. Se la conversione di Guido può apparire opportunistica: la campagna propagandistica antisemita era iniziata da diversi mesi ed erano state emanate le prime leggi razziali, non lo fu per le figlie che avevano compiuto gli studi presso scuole religiose cattoliche e che subito dimostrarono una grande devozione, Clara inoltre già prima del battesimo si era avvicinata all’Azione Cattolica. Nel periodo estivo si trovavano presso Guido, probabilmente in vacanza, anche le sue due sorelle maggiori: Elda e Lia Marta che abitavano a Genova. Elda, insegnante, si era laureata in scienze naturali nel 1907 e insegnava da trent’anni nelle scuole superiori pubbliche, Lia Marta era impiegata presso la Banca Nazionale del Lavoro. Elda si era iscritta all’ONFS (poi AFS[3]) nel 1923 e al P.N.F. nel 1932, era anche socia dell’UNPA[4]. Nel 1932 era stata invitata ad iscriversi alla Comunità Israelitica di Genova, ma aveva rifiutato, abiurando la religione con una lettera diretta al Rabbino capo di Genova.
I provvedimenti razziali ebbero pesanti conseguenze sulla famiglia Levi, la legge che disciplinava l’attività degli ebrei che esercitavano una professione, L. 29 Giugno 1939 n. 179, prevedeva all’art. 21:
L’esercizio professionale da parte dei cittadini italiani di razza ebraica, iscritti negli elenchi speciali, è soggetto alle seguenti limitazioni:
a) salvi i casi di comprovata necessità ed urgenza, la professione deve essere esercitata esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica;
b) la professione di farmacista non può essere esercitata se non presso le farmacie di cui all’art. 114 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con R. decreto 27 luglio 1934-XII, n. 1265, qualora l’Ente cui la farmacia appartiene svolga la propria attività istituzionale esclusivamente nei riguardi di appartenenti alla razza ebraica.
“Mio padre vide la miseria, la fame bussare alla sua porta perché, essendo di origine ebraica non poteva tenere neppure la farmacia che era l’unico sostentamento della sua famiglia. Soffrì in modo indicibile, maggiormente essendo per natura ipersensibile.” Scrive nella sua memoria la figlia Laura[5]. Non rimase a Guido che cercare di percorrere la strada della “discriminazione” per poter esercitare la professione: contava certo sui suoi meriti di guerra, sul suo passato fascista, sull’aver abbandonato sia la religione che la comunità ebraica da oltre vent’anni, sull’essersi battezzato, sulla vasta rete di conoscenti e amici “ariani”. Il 13 gennaio 1939 presentò la domanda al ministero; la pratica non era ancora stata definita nel febbraio 1942 quando venne inoltrata, tramite la prefettura, istanza di risposta. Non ne conosciamo l’esito, è però un dato di fatto che la proprietà della licenza della farmacia era ancora di Guido nel 1943, come attesta una lettera del comune di Ambivere in data 27 febbraio 1944 che dichiara un debito di L. 328,15 nei confronti di Guido Levi per la fornitura di medicinali ai poveri per il primo semestre 1943, mentre non può quantificare tale debito per il periodo successivo in quanto non è stata comunicata la distinta per il secondo semestre.
Le leggi razziali incisero sulle convinzioni politiche di Guido: persona colta e attenta a quanto succedeva, leggeva non solo i giornali locali, ma anche il Corriere della Sera. Dopo lo scoppio della guerra ascoltava Radio Londra. La seconda copia del Corriere che arrivava ad Ambivere, era destinata a Battista Perico, amico di Guido e suo compagno nell’ascolto di Radio Londra, di lunghe discussioni ed anche di partite a carte, come racconta Maria, sua figlia.
Elda e Lia Marta erano rimaste senza lavoro: Elda era un’insegnante, quindi fu la prima ad essere licenziata, non risulta dalle carte in nostro possesso se abbia o no ricevuto la pensione, ne aveva però i requisiti avendo fatto trent’anni di servizio. Lia Marta era impiegata presso una banca di interesse nazionale, anch’essa venne licenziata ai sensi dell’art. 13 del R.D.L. 17 novembre 1938 – XVII, n. 1728. La perdita del lavoro, la mancanza di legami rispetto alla comunità ebraica, a Genova numerosa, le indusse dopo i primi bombardamenti a lasciare la città e trasferirsi definitivamente ad Ambivere, dove risultano residenti dal 15 settembre 1941, ma dove già dal mese di agosto avevano acquistato una casa in via del Santuario 35.
La figura di Lia Marta resta nell’ombra, come quella di Emma Bianca di cui i compaesani ricordavano la gentilezza; sua figlia Laura la descrive “Mite, con una forza di volontà ed una energia sorprendenti in una donna apparentemente timida”. Nessuno ha raccontato cosa provarono Guido e Elda quando si trovarono addosso per legge quella etichetta di ebreo a cui si sentivano totalmente estranei, per non parlare del tradimento che il partito e lo stato operarono nei loro confronti: entrambe avevano aderito al fascismo in maniera non formale, ma convinta, Guido aveva servito la patria come volontario, Elda aveva insegnato per trent’anni ed era sostenitrice del fascismo dal 1923, entrambi vennero espulsi dal partito e Elda anche dall’insegnamento. Guido dovette lottare per conservare la farmacia e non trovarsi anche privo dei mezzi per far vivere la famiglia. Non sappiamo quale reazione abbia avuto Elda, ma l’ascolto da parte di Guido di Radio Londra e l’amicizia con Battista Perico, suo compagno di ascolto, sono segni del profondo ripensamento che molti ebrei per legge, che al fascismo avevano aderito o guardato con favore, maturarono dopo le leggi razziali.
Probabilmente verso la metà del 1943, sfollando da Milano su cui i bombardamenti si facevano più pesanti e frequenti, venne ad abitare ad Ambivere, presso il cognato Guido, anche Ada Tedeschi, sorella della moglie Bianca[6].
Schede di deportazione
Elda Levi, nata a Modena il 13 agosto 1884. Deceduta in luogo e data ignoti[7].
Lia Marta Levi, nata a Modena il 23 marzo 1888. Deceduta in luogo e data ignoti.
Ada Tedeschi, nata a Firenze il 3 febbraio 1883. Uccisa all’arrivo a Auschwitz il 10 aprile 1944.
Emma Bianca Tedeschi, nata a Firenze il 13 febbraio 1887. Deceduta in luogo e data ignoti.
Clara Levi, nata a Cesano Maderno (MI ora MB) il 1 marzo 1929. Deceduta a Bergen Belsen il 31 maggio 1945 dopo la liberazione.
Laura Levi, nata a Cengio (SV) il 11 settembre 1922. Liberata a Auschwitz il 27 gennaio 1945.
Nora Levi, nata a Cengio (SV) il 9 dicembre 1920. Deceduta a Bergen Belsen il 31 maggio 1945 dopo la liberazione.
Arrestate ad Ambivere da italiani il 1 dicembre 1943.
Le sette arrestate dopo essere state detenute nel carcere di Bergamo vennero inviate al carcere di Milano e poi al campo di transito di Fossoli, il 5 aprile 1944 furono deportate con altri 935 ebrei con il convoglio 09 giunto ad Auschwitz il 10 aprile 1944.
Deportati identificati 609, di cui reduci 50, deceduti 559.
Il dott. Guido Levi dopo l’8 settembre seguì con preoccupazione il succedersi degli avvenimenti e intuì i pericoli mortali che correva assieme alla famiglia. Maria Perico racconta che il dottore parlava delle sue preoccupazioni al padre Battista[8]:
Il dottore prevedeva, e come, il disastro incombente. Era uomo colto, al corrente di quanto accadeva per via delle letture e della Radio. Ripeteva spesso: se io dovessi sapere, capire, che possono portarci via, io ammazzo tutti (possedeva una pistola). Non avrebbe permesso, con qualunque mezzo, la deportazione.
Purtroppo Guido si ammalò gravemente, gli furono amputate le gambe e, ridotto su una carrozzella, morì di lì a poco, l’8 ottobre 1943.
Racconta ancora Maria che poco prima di morire Guido aveva chiamato l’amico Perico e l’aveva implorato “Tu mi devi promettere che se le cose precipitano per il peggio, devi mettere in salvo le mie donne”. Tornato a casa, Battista aveva convocato la famiglia e riferita la promessa fatta, disse “Alziamo su un muro in solaio e le nascondiamo; se le cose peggiorano le accompagno nei boschi”.
Purtroppo la consapevolezza del dottore non era riuscita a convincere le signore Levi del pericolo incombente: nonostante gli inviti alla fuga e le offerte di aiuto fatte dalla famiglia Perico, si rifiutarono di abbandonare le loro case anche dopo che erano giunte le prime notizie sugli arresti effettuati dai tedeschi, ed è nelle loro case che furono arrestate il 1 dicembre 1943 dal maresciallo comandante la Stazione e dai carabinieri di Ponte San Pietro.
Maria Perico racconta come si svolse l’arresto[9]:
Di mattino è arrivata una camionetta con il maresciallo dei carabinieri di Ponte San Pietro per prelevare le donne. Mio padre mi chiama ed insieme andiamo a casa Levi; papà si inginocchia davanti al maresciallo, lo invoca di lasciarle andare, gli suggerisce di dire che non le ha trovate. Il maresciallo risponde ”Non si preoccupi, signor Perico, è solo per un interrogatorio”. Clara non si trovava in casa, era a scuola a Bergamo (avrà avuto allora 13-14 anni). L’hanno aspettata che arrivasse con il treno e le hanno portate via.
Clara era a scuola presso le suore Sacramentine, e forse avrebbe potuto salvarsi ed essere nascosta, purtroppo le sue famigliari non si resero conto del pericolo, credettero al semplice controllo con rinvio a casa, e quindi si rifiutarono di seguire il maresciallo senza di lei; una signora si recò a Bergamo col treno a prenderla e riportarla ad Ambivere, dove la stavano attendendo con il resto della famiglia. La famiglia Levi fu condotta prima al Lazzaretto, punto di raccolta, poi al carcere cittadino di Sant’Agata.
Che la famiglia Levi godesse di stima e amicizia in paese ci è attestato anche da una lettera contenuta nel fascicolo Levi: è un’istanza della moglie del podestà di Ambivere, già segretaria dei Fasci femminili, signora Lina Verna Alborghetti, e non è certo usuale che persone con quegli incarichi si occupino di assistere gli ebrei del paese[10]:
A sua Eccellenza il Prefetto della Provincia di Bergamo
In un colloquio avuto a S. Agata colle ricoverate – già qui residenti – Elda – Marta – Bianca – Ada – Nora – Laura e Clara Levi fui pregata di interessarmi presso i Carabinieri per ottenere il permesso di prelevare un cambio di biancheria e indumenti personali dalla loro roba. Il Maresciallo comandante la Stazione di Ponte S. Pietro benché io avessi già avuto verbalmente questo permesso da una Commissione Prefettizia – qui venuta per verifica – non può aderire alla mia richiesta se non ha una autorizzazione scritta rilasciata dalla Prefettura. Mi rivolgo perciò a Vostra Eccellenza per poterla ottenere.
Lina Verna Alborghetti già Segret. del FF.FF.
Ambivere 15 febbraio 1944 XXII
L’istanza però non andò a buon fine: solo il 25 febbraio la Prefettura espresse parere favorevole e trasmise per competenza la richiesta all’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (EGELI.), le Levi però già dal 23 febbraio[11]erano state trasferite a Fossoli assieme agli altri ebrei detenuti a Bergamo. Dalle carte relative agli inventari dei beni, dove figurano i prelievi anche di biancheria a favore di vario personale del regime, non figura alcun prelievo a favore dei legittimi proprietari.
Il 5 aprile 1944 le donne della famiglia Levi partirono da Fossoli per essere deportate ad Auschwitz.
Ada Tedeschi fu uccisa all’arrivo, il 10 aprile 1944; delle altre donne anziane, Emma Bianca Tedeschi, Elda e Lia Marta Levi, anch’esse uccise nelle camere a gas, non conosciamo la data di morte.
Clara e Nora risultano invece decedute a Bergen Belsen il 31 maggio 1945, dopo la liberazione del campo: avevano dovuto affrontare la terribile marcia di trasferimento da Auschwitz a cui i nazisti costrinsero tutti i deportati in grado di camminare e a cui pochi deportati sopravvissero.
Il racconto di Arianna Szorènyi, una delle poche sopravvissute a quell’inferno, ci fa capire cosa fu quella marcia e quale sorte toccò a Bergen Belsen alle deportate[12]:
Camminarono sulla neve per tre giorni e tre notti. La fila non era più come prima, c’erano dei vuoti. E ai lati della strada cominciò a vedere i cadaveri di quelli che non avevano retto al freddo e alla stanchezza. Prima pochi, poi sempre più numerosi, fino a diventare come una cornice al loro andare, una cornice di morti. […] Poco dopo, con un altro trasporto, arrivò a Bergen Belsen. Belsen era detto “il campo della morte”. Non c’era niente, nella baracca si dormiva per terra una accanto all’altra e anche lì, se qualcuna moriva e ne portavi fuori il cadavere, ti davano un mestolino di zuppa in più, per pagare il tuo servizio, il tuo “lavoro”.
Il campo di Bergen Belsen fu liberato il 15 aprile 1945 dall’esercito inglese.
Laura, colpita da un’altissima febbre rimase al “revier[13]” di Birkenau, riuscì a sopravvivere alla malattia e agli stenti di quegli ultimi giorni, venne liberata il 27 gennaio 1945 dalle truppe russe giunte ad Auschwitz e rientrò successivamente ad Ambivere.
Oltre alla memoria lasciata all’Isrec e a quelle lasciate al monastero di Pontida vi sono alcuni documenti ufficiali che riportano testimonianze dirette da parte di Laura sulla sorte della sua famiglia, una è stata rilasciata al Tribunale di Bergamo nel corso del procedimento per la dichiarazione di morte presunta dei suoi famigliari[14]:
In tale udienza la Levi Laura dichiarava che nel dicembre 1943 insieme con tutta la propria famiglia e le zie Levi Elda e Levi Lia Marta, era stata tratta in arresto dai fascisti e successivamente trasferita nel campo di concentramento tedesco di Birkenau in Polonia, che dopo qualche tempo la madre e le zie erano state soppresse nei forni crematori mentre le altre due sorelle erano state trasferite in altro lager in Germania; e che infine lei era stata liberata dalle truppe russe e quindi rimpatriata. Aggiungeva la ricorrente che, nonostante le ricerche fatte attraverso il Vaticano e la Croce Rossa, non era riuscita ad avere alcuna notizia dei parenti che con lei erano stati deportati in Germania.
Un’amica già citata, la signora Maria Perico, testimonia[15]:
Sì quando Laura è tornata sono andata a trovarla. Sembrava una pazza; non resistevo a sentirla raccontare la vita al campo. Le parenti erano finite nelle camere a gas ad eccezione di Nora, morta dissanguata sulla neve per l’amputazione delle mani e lei si era salvata perché una febbre altissima aveva fatto sì che fosse ricoverata in un’infermeria. Qui Laura veniva ora ritenuta matta, non veniva creduta finché … non ci fu a Bergamo, al Sant’ Alessandro, la presentazione di un libro di storia con la testimonianza di alcuni ex-deportati. C’erano tanti farmacisti, tutti ebrei.
Il racconto contiene un’evidente incongruenza, Nora è deceduta a Bergen Belsen dopo quindi l’evacuazione di Auschwitz a cui Laura, ricoverata in infermeria, non ha partecipato. E’ possibile che il racconto si riferisca ad altra persona o all’incidente occorso a Clara, che assieme a Nora era stata destinata a un “commando” che svolgeva lavori alla massicciata della ferrovia: investita da un carrello pieno di sassi a causa di una manovra maldestra del conducente, aveva riportato gravissime ferite alle gambe, a Laura, anch’essa ricoverata nell’ ”ospedale” di Birkenau, era stato raccontato dalle dottoresse dell’ ”ospedale”. Il racconto di Maria evidenzia un fatto comune a molti sopravvissuti: la difficoltà da parte delle persone, che pure avevano conosciuto gli orrori della guerra, a credere che potessero essere esistiti orrori tali quali quelli perpetrati nei campi di sterminio nazisti.
Ammalarsi e finire nell’ “ospedale” a Birkenau di solito significava morire, Laura era già stata indicata per la selezione, un’infermiera polacca che l’aveva presa in simpatia la salvò nascondendola in un angolo della baracca[16]. L’avvicinarsi dei russi e l’abbandono del campo segnò il destino delle tre sorelle: Laura malata restò ad Auscwitz, Nora e Clara raggiunsero Bergen Belsen, ma non riuscirono a sopravvivere agli stenti subiti durante il trasferimento e durante la detenzione nel campo.
Laura ritornò dopo aver percorso un lungo tragitto nelle terre dell’Unione Sovietica, ancora nei campi, ma questa volta per rivivere, non per morire: un mese ancora ad Auschwitz, ma curata e nutrita, poi tre mesi a Katovice (PL), poi a Sluck[17] nella Russia Bianca. L’11 settembre partì per l’Italia, il viaggio fu lunghissimo: 45 giorni fra varie tappe, finalmente giunse a Pescantina (VR) luogo designato per lo smistamento e la destinazione dei sopravvissuti. Laura venne assistita dalla pontificia Opera Bergamasca che provvide a portarla a Bergamo, dove arrivò il 17 ottobre 1945[18]. Per sei mesi rimase ospite della Contessa Passi[19] a Seriate, poi tornò nella sua casa di Ambivere; fino al luglio 1948 svolse funzioni di assistente ai bambini presso la scuola delle suore del Sacro Cuore.
La deportazione e il campo di sterminio, le sofferenze e le morti erano state troppo pesanti per lei: riferisce Argia Sonnino, figlia e nipote di ebrei sterminati dai nazisti che l’aveva visitata alla ricerca di notizie dei congiunti[20]:
Nessuno, dopo la cattura, seppe darci notizie. Solamente una signora, si chiamava Levi, di Mapello, che era scampata agli orrori di Auschwitz poté rivelarci qualcosa. Non molto però, perché sussurrava di aver visto la nonna, di averle parlato. Ma quando noi le chiedevamo: “e poi, perché non è tornata, che le hanno fatto?” la signora Levi si metteva le mani nei capelli e riusciva dire soltanto: “no, no, no…”
Laura Levi lasciò Ambivere, dopo essersi sposata, per abitare a Bergamo; trasferitasi per alcuni anni a Milano, dopo essersi separata dal marito ritornò a Bergamo nel 1966. Il suo nome compare in un elenco di domande di indennizzo alla Repubblica federale tedesca accolte nel 1968 e pubblicato sul giornale locale[21].
La ricorda Angelo Bendotti, che aveva conosciuto Laura durante le sue frequenti visite all’ISREC di Bergamo:
Non si riprenderà mai da quanto aveva subito: tenterà di vivere nella normalità, ma Auschwitz, i suoi morti scomparsi, non le permetteranno di riprendersi.
Al ritorno cercò di vivere, come gli uomini nelle case, ma era malata di freddo, e si copriva con una vecchia pelliccia, che qualcuno le aveva donato. Qualche rara volta sembrava sorridere, ma guardava il vuoto. Quando chiuse gli occhi per sempre, erano passati quarant’anni.
Laura morì a Bergamo il 10 gennaio 1984.
Laura ha lasciato all’Isrec una memoria, è un dattiloscritto che si apre con queste parole: “Titolo del libro: Laura Levi e le sue memorie”, che riproduciamo in chiusura del presente capitolo.
Questa la storia delle persone, ma c’è anche un’altra storia, quella relativa ai loro beni che raccontano le carte della Prefettura nel faldone “Beni Ebraici” dell’Archivio di Stato. Per la burocrazia della RSI il capitolo persone si è chiuso con l’arresto e la deportazione e le carte non ci parlano della deportazione, della strage e delle sofferenze delle ebree di Ambivere, ci raccontano invece dettagliatamente della cinica spartizione dei beni della famiglia Levi[22].
Quello delle Levi fu uno dei primi arresti, riguardava famiglie italiane interamente ebraiche, senza quindi coniugi o figli “ariani” che potessero vantare diritti, e i loro beni, benché non rilevanti, attirarono subito l’attenzione delle varie autorità fasciste. Già il 31 dicembre il Commissario Federale della Federazione provinciale dei fasci repubblicani di Bergamo, il ragionier Angelo Berizzi, avanzava proposte al Capo della provincia per la destinazione dei beni della famiglia[23]:
Per le determinazioni di competenza, Vi sottopongo le seguenti segnalazioni:
1) Appartamenti degli ebrei arrestati – dovrebbero essere messi a disposizione degli sfollati, con precedenza per gli squadristi, provenienti dalle terre invase.
2) Farmacia dell’ebreo Levi di Ambivere – si ritiene opportuna la nomina di un sequestratario e la sua assegnazione in gestione alla Cooperativa Farmaceutica di Bergamo.
3) Ambivere – appartamenti di due ebrei – d’intesa con la Commissione operaia della C.A.B. di Ponte S. Pietro, si propone che i due appartamenti di 6 locali ciascuno di proprietà di ebrei esistenti ad Ambivere siano assegnati a famiglie di operai della Caproni, attualmente residenti a Bergamo; si avrà così il risultato di sfollare la città e di lenire la crisi dei trasporti tramviari sulla linea di Ponte S. Pietro.
Nel contempo si procedette all’inventario dei beni della famiglia, ne venne incaricato un impiegato della questura che così relazionò:
Bergamo 7 gennaio 1944-XXII°
Ill./mo Sig. QUESTORE
SEDE
Nel sopraluogo compiuto il 5 corr. In comune di Ambivere per accertare l’effettiva disponibilità di ambienti abitabili, già appartenenti ad ebrei, ho rilevato quanto segue:
1) Villino di via Roma nr. 64 di proprietà del sig. Silvagna di Milano, occupato dalle ebree Tedeschi Emma – Levi Nora e Clara.
Il villino è composto di un appezzamento di terreno e di un fabbricato civile comprendente 4 locali e un cucinino a pian terreno e cinque locali al piano superiore.
Detti locali sono così suddivisi:
al piano terreno:
– due locali sono adibiti a farmacia e laboratorio;
– uno a sala da pranzo;
– uno a studio e sala di soggiorno;
al piano superiore:
– tutti i locali sono adibiti a camere da letto e ripostiglio.
Tutti i locali in parola sono mobiliati e arredati.
2) Farmacia
La farmacia è gestita da un titolare assunto dalla vedova Levi dopo la morte del marito, coadiuvato da un vecchio addetto al laboratorio che, pare, sia l’uomo di fiducia dei Levi.
Il titolare dal 2 dicembre (giorno dell’arresto dei Levi) annota quotidianamente l’incasso e ogni fine mese detrae da questo lo stipendio per sé e per l’assistente e provvede al pagamento di fatture per forniture materiali.
3) Caseggiato di via Santuario 31 di proprietà dell’ebrea Levi Lia Marta, già occupato dalla proprietaria e da Tedeschi Ada e Levi Elda.
Il caseggiato si compone di 3 locali a piano terreno adibiti a stanza di soggiorno; sala da pranzo e cucina e nr. 5 locali al piano superiore, adibiti a camere da letto e ripostiglio.
Tutti i locali sono mobiliati e arredati.
Firma autografa: Nicola Magrone Impiegato p.s.
Si fece ben presto avanti anche la Questura che il 14 gennaio 1944 chiese mobili, letti, coperte etc. per l’impiegato di polizia Francesco Russo e l’applicato di P.S. Alfonso Voza provenienti da Spalato ed assunti in servizio presso la questura di Bergamo: i due asserivano di aver perduto in quella sede quanto possedevano in conseguenza dei noti avvenimenti politico-militari colà svoltisi dopo l’8 settembre, giunti a Bergamo avevano preso in affitto qui in città due piccoli appartamenti vuoti ed allo scopo di poterli abitare chiedevano di aver in uso alcuni mobili e masserizie: “Quest’Ufficio è del parere che i mobili sopra specificati potrebbero essere prelevati da abitazioni di ebrei sottoposte a sequestro”conclude la Questura[24].
Venne pertanto disposto un nuovo sopralluogo presso le abitazioni delle famiglie Levi ad opera di un altro funzionario della Questura che procedette all’inventario dei beni contenuti negli appartamenti, un lungo elenco che ci fornisce il quadro di una famiglia benestante ma non agiata: nell’elenco dei beni non figurano gioielli, quadri, soprammobili di valore o argenterie; vi è invece larga disponibilità di tutto quanto serve per un confortevole arredo e per le faccende domestiche.[25]
Nel contempo, il 15 febbraio 1944, arrivarono nuove richieste: la Federazione Provinciale dei Fasci Repubblicani di Bergamo chiese altri “mobili ed effetti … al fine di poter attrezzare la Casa Rionale di Redona, ove sono ricoverate le tre numerose famiglie Ivanovich, Basile e De Grisogano, sfollate e sinistrate da Zara, le quali convivono in comunione domestica e che versano nella più squallida miseria”[26].
Il 25 febbraio 1944 il Capo della provincia procedette alla formale confisca dei beni della famiglia Levi mediante decreto[27]:
IL CAPO della PROVINCIA di BERGAMO
DECRETA
I seguenti beni di proprietà degli eredi Levi di razza ebraica ai sensi dell’art. 8 del predetto decreto del Duce 4 gennaio 1944-XXII n. 2, sono confiscati a favore dello Stato e trasferiti per la gestione all’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare, incaricato dello Stato di amministrarli e di alienarli con le forme che saranno a suo tempo stabilite dal Ministero delle Finanze.
1) Farmacia sita in Ambivere (Bergamo) via Roma 64;
2) Fabbricato situato in Ambivere – Via Santuario 31
3) Mobilio e arredamento situato nel villino di Via Roma 64 – Ambivere, di proprietà dell’ariano Silvagna di Milano ed affittato alle ebree eredi Levi, di cui all’unito elenco:
L’appartamento della famiglia Levi, via Roma 64, comprende 4 camere da letto; 1 sala da pranzo, 1 studio e 1 cucina.
Nelle quattro camere da letto esistono i seguenti mobili ed effetti letterecci:
n. 4 lettini con rete metallica
“ 1 rete metallica
“ 7 materassi di lana
“ 4 materassi di crine
“ 8 traversini con federe
“ 10 lenzuola
“ 15 coperte di lana
“ 7 di cotone
“ 5 comodini
“ 4 comò con specchio
“ 1 senza specchio
“ 4 armadi senza specchio
“ 1 armadio con specchio
“ 10 sedie
“ 3 tavolinetti
Nella sala da pranzo e in quella adibita a studio esistono i seguenti mobili:
n. 2 tavoli grandi
“ 6 sedie di legno
“ 6 di vimini
“ 2 a braccioli
“ 3 poltroncine di vimini
“ 1 divanetto di legno
“ 1 sedia a sdraio
“ 2 credenze
“ 1 macchina da cucire
“ 1 scrivania
“ 1 libreria
Nella cucina esistono i seguenti mobili:
n. 1 cucina elettrica
“ 1 economica
“ 1 tavolo
“ 2 armadi credenza
“ 2 sedie
utensili vari.
ORDINA: a tutti gli Ufficiali giudiziari che ne siano richiesti ed a chiunque spetti, di mettere ad esecuzione il presente titolo, al pubblico Ministero di darvi assistenza, ed a tutti gli Ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti.
Il presente decreto sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale d’Italia.
Bergamo, lì 25 febbraio 1944
IL CAPO della PROVINCIA
f.to E. Grazioli
Il 28 febbraio 1944 venne disposta, anche se la pratica di confisca non era ancora definita, l’assegnazione dei rimanenti beni della famiglia Levi, il Capo della provincia Emilio Grazioli dispose[28]:
In attesa che sia definita la pratica relativa alla confisca dei beni appartenenti agli ebrei LEVI LIA DOTT. MARTA, Via Roma n. 64 di Ambivere e TEDESCHI Anna Bianca (sic), pure di Ambivere, dispongo quanto segue:
1°) il sinistrato e sfollato da Zara Dott. Egidio Rovaro BRIZZI è autorizzato di prendere in temporanea consegna l’appartamento della suddetta Dott. Marta Levi Lia allo scopo di poter ivi abitare con la Sua famiglia.
2°) La sinistrata e sfollata da Zara OMERO Ezia è autorizzata di prendere in temporanea consegna l’appartamento della suddetta Emma Bianca TEDESCHI, allo scopo di ivi abitare con la sua famiglia e con la congiunta famiglia BASILE, che pure trovasi nelle stesse condizioni.
I due consegnatari dovranno firmare regolare verbale di avvenuta consegna, di cui una copia sarà rimessa a questa Prefettura, una al comune di Ambivere ed una sarà tenuta negli atti di codesto comando.
Il 1 marzo 1944 fu redatto dall’Aiutante capo Mario D’Avella il processo verbale di temporanea consegna dell’appartamento della signora Emma Bianca Levi al Dott. Egidio Rovaro Brizzi, in via Roma n. 64 in Ambivere mentre il 9 marzo quello di temporanea consegna dell’appartamento della signora Lia Marta Levi alla Signorina Omero Ezia fu Pietro, in Via Al Santuario 31, in Ambivere.[29]
L’assegnazione degli appartamenti attesta il cambio dei destinatari rispetto alla lettera del Capo della Provincia, forse dovuto ad un migliore esame delle esigenze e possibilità delle due famiglie.
E’ da notare che, contrariamente a quanto avviene per le richieste delle detenute Levi di poter ottenere un cambio di biancheria, parte dei beni vennero assegnati ancor prima dell’emanazione dei decreti di confisca: solo il 25 febbraio 1944 il Capo della provincia di Bergamo Emilio Grazioli provvide con decreto n. 4537 alla confisca della farmacia, delle abitazioni e degli effetti in esse contenuti.
Una lettera dell’EGELI ben rende lo spirito con cui le autorità fasciste affrontavano il problema:
San Pellegrino, 10 MAR 1944 XXII
Alla PREFETTURA DI BERGAMO
Oggetto: Gestione beni ebraici. Pratica N. 100 G.Eb. Decreto Prefettizio N. 4537 div. I^ in data 25 febbraio 1944, Ditta Tedeschi Emma
Si comunica che a seguito del decreto emesso da codesta Prefettura contro il suddito nemico di cui all’oggetto, abbiamo disposto per la presa in consegna della gestione dei beni sequestrati delegando a tal fine l’Istituto di Credito Fondiario competente per territorio.
P. IL COMMISSARIO (firma illeggibile)
La pratica continuò nel suo iter di perfezionamento, il 23 marzo la Prefettura chiese al Comune di Ambivere di fornire le generalità complete degli eredi[30]:
Al Podestà di Ambivere
Siete pregato di far conoscere, con la massima sollecitudine, la paternità e tutti gli altri dati anagrafici in possesso di codesto Comune, degli eredi Levi, proprietari della Farmacia, sita in Via Roma 64, del fabbricato di Via del Santuario 31.
Vorrete del pari trasmettere i dati predetti relativi alla famiglia Tedeschi.
Inoltre codesta Amministrazione vorrà specificare se la farmacia Levi sia sita nel fabbricato di proprietà ex Levi o altrove.
Evidentemente la conoscenza completa dei dati anagrafici non era necessaria per avviare sette ebree allo sterminio, era però indispensabile per effettuare la trascrizione dei decreti di confisca e la registrazione al catasto; trascriviamo anche la risposta del Comune di Ambivere[31]:
Alla PREFETTURA di BERGAMO
Le famiglie di razza ebraica già residenti in questo Comune, erano due: l’una quella facente capo a TEDESCHI EMMA, vedova del Dott. Guido Levi, proprietaria della FARMACIA sita in Via Roma n. 64, ma non del fabbricato, il quale risulta ed è di proprietà di SILVAGNA Antonio fu Angelo, domiciliato in Milano; l’altra famiglia era costituita dalle sorelle LEVI dott. Elda e LEVI dott. Lia Marta fu Sansone, le quali abitavano in questo Comune, nel fabbricato civile di Via al Santuario n. 31, di proprietà di LEVI dott. Lia Marta fu Sansone. Nel caso possa essere utile a cotesto Ufficio aggiungo che il fabbricato di proprietà di Levi Lia Marta è segnato in catasto, ai fini della applicazione delle Imposte e Sovrimposte, col reddito imponibile di lire 1467.
Seguono le generalità complete dei componenti delle due famiglie. […]
IL PODESTA’ (firma autografa Alborghetti)
Il 30 giugno 1944 la pratica Levi, per le autorità fasciste, poté essere chiusa: nell’ultimo documento del fascicolo l’Intendente di Finanza Di Pietrantonio[32] comunicava alla Prefettura[33]:
Ai sensi dell’art. 8 del D.L. 4 gennaio 1944 N. 2, si partecipa che il decreto a margine è stato trascritto a favore del patrimonio dello Stato presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari addì 19/6/1944 al Vol. 766 N. 2918 Reg.Gen. e N. 2566 del Reg.Part. .
Lo stesso decreto segnato al N. 4128 di Repertorio da questa Prefettura è stato registrato a Bergamo (Atti Privati) addì 13/6/44 al N. 4156 Vol. 290.
Il memoriale di Laura
Ho preferito riportare in chiusura il memoriale di Laura per conservarne l’integrità.
Le memorie di Laura, diversamente da altri scritti da lei lasciati, sono state concepite non come una testimonianza per un procedimento, ma come testimonianza per lasciare memoria di quello che è stato, del suo dolore mai cessato, dei suoi affetti familiari. Il dattiloscritto si apre con queste parole:
Titolo libro:
“LAURA LEVI E LE SUE MEMORIE ”
“Conoscere tacendo, e giudicare meditando”
Laura Levi
chiara espressione della volontà di destinare il racconto della sua vita famigliare e della distruzione della sua famiglia a tutti.
Non ho conosciuto Laura, e non vi è data sul manoscritto, possiamo collocarlo nei primi anni ottanta: è il periodo in cui comincia a emergere tra gli ex deportati l’importanza della testimonianza a seguito del diffondersi di tesi negazioniste.
Il testo è la copia esatta di quanto scritto da Laura Levi, è stata lasciata inalterata anche la denominazione del campo di sterminio: Birkenaus Auschwiz, in luogo della corretta Birkenau Auschwitz; sono stati corretti i soli refusi di battitura. La trascrizione del testo è stata curata da Silvio Cavati.
LAURA LEVI E LE SUE MEMORIE
“Conoscere tacendo, e giudicare meditando”
Laura Levi
Indice:
Introduzione
I Capitolo: I miei genitori.
II Capitolo: l’arresto della mia famiglia il 1 dicembre 1943 e il mio arresto. La detenzione nelle carceri di S. Agata di Bergamo e la permanenza di 3 mesi (dicembre, gennaio e febbraio 1944) nelle medesime.
III Capitolo: II mese di marzo a Fossoli (Modena). La deportazione nel febbraio 1944, nel campo di sterminio di Birkenaus Auschwiz – Alta Slesia (Polonia) martirio di mia madre e delle zie.
IV Capitolo: La vita al campo con Le mie sorelle e la loro fine.
V Capitolo: L’arrivo dei russi – il soggiorno nella Russia Bianca e il mio rientro in Patria.
VI Capitolo: II mio reinserimento in società e la mia esistenza in questi 33 anni.
Introduzione (Prefazione)
Ricordando “Le mie prigioni” di S. Pellico, voglio intitolare questa mio lavoro: “Laura Levi e le sue memorie.”
Queste mie esperienze tragiche, filosofiche, quasi umoristiche, vogliono essere un monito e un incoraggiamento per comprendere sempre più e sempre meglio che la libertà è lotta: lotta incessante, pur con le inevitabili reazioni umane sulle debolezze stesse. L’adagiarsi sulle proprie miserie vuol dire esserne schiavi e, in certi casi, arrivare anche a limiti estremi di crudeltà inaudite!
Non voglio con ciò dire: “più conosco il genere umano e più amo le bestie!”. Ma una cosa è certa, e ve lo posso assicurare con cognizione di causa, la bestia non è mai riuscita ad arrivare ai limiti estremi a cui è giunto l’animale a due gambe … cosiddetto ragionevole.
I CAPITOLO: I MIEI GENITORI
Mio padre, Guido Levi, nacque a Modena il 5 aprile 1900. Quella del babbo fu una famiglia di professionisti, residente a Modena. Ebbe un educazione severa, ma giusta, con quel massimo ed eccessivo rispetto verso i genitori, ripeto eccessivo perché, probabilmente, creava un certo distacco tra i figli e i genitori stessi. Finito il ginnasio, mio padre non voleva più studiare. Suo Babbo lo mandò allora a fare il garzone nella bottega di un carbonaio. A vederlo al lavoro mandava i suoi colleghi, i suoi allievi e i compagni di scuola del babbo stesso.
Mi bastarono, diceva mio padre, raccontando questo episodio, 15 giorni di simile lavoro per convincermi a riprendere la scuola e brillantemente portò a termine i suoi studi di chimica e di farmacia.
Conobbe mia madre a Milano ove la sposò nel 1919.
Nel 1931 mio padre, con grandi sacrifici, comprò la farmacia di Ambivere – Bergamo -. In questo paese si prodigò senza risparmio, per i sofferenti e gli umili del posto.
Essendo la mia famiglia di origine ebraica, pur essendo cristiana, subì nel 1938 un’ignobile persecuzione: e questo è un fatto storico, sia ben chiaro!
Mio padre vide la miseria, la fame bussare alla sua porta perché, essendo di origine ebraica non poteva tenere neppure la farmacia che era l’unico sostentamento della sua famiglia. Soffrì in modo indicibile, maggiormente essendo per natura ipersensibile. Intristì e si ammalò di endoarterite obliterante: terribile morbo che i l 2 ottobre 1943 lo portò alla morte. Rammento che il 18 settembre 1943 entrarono i tedeschi a Bergamo; il babbo ch’era all’ospedale di Bergamo stessa, ebbe a dire: “ora ci massacreranno tutti”, come avevano già fatto in Germania per gli ebrei tedeschi. Subito dopo entrò in coma e la sua fibra robusta resistette ancora sino, ripeto, al 2 ottobre 1943. Sul suo letto di dolore mi diceva: “con quello che abbiamo fatto per l ‘Italia (lui era decorato, un fratello medaglia d’oro al valor militare), guarda, Laura, come ci ricompensa.” Ma papà, gli rispondevo, quelli che ci perseguitano non sono italiani perché non amano la nostra patria, anche se sono nati in Italia.
Ancor oggi mi ricordo il suo volto triste e sereno insieme, eroicamente rassegnato al tragico destino suo e della sua famiglia che egli aveva previsto. Rammento papà come un uomo dal portamento signorilmente distinto, dal carattere energico, esuberante, dotato di una intelligenza vivace unita ad un animo nobile, generoso, profondamente buono e giusto.
Mia madre, Emma Bianca Tedeschi, nacque a Firenze nel 1900. Di suo padre, Giuseppe Tedeschi, funzionario di Banca, mamma diceva ch’era così metodico e la sua vita talmente regolata d’arrivare all’età 60 anni senza aver dovuto prendere un cucchiaino di olio di ricino! Parlava, mia mamma, di essere stata giovinetta per breve tempo in Egitto, e precisamente, ed Alessandria, presso uno zio, fratello di sua madre, Mose Latis che aveva fondato l’ospedale di Alessandria stessa che vige tutt’ora. Mamma volle ben presto essere rimpatriata, perché troppo forte sentiva la nostalgia per l’Italia.
Quando perdette sua madre, che morì a 50 anni di peritonite, soleva dirmi che al dolore bisogna reagire come meglio si può e in qualsiasi modo. Mite, con una forza di volontà ed una energia sorprendenti in una donna apparentemente timida, fu moglie e madre esemplare.
Papà, quando era in collera, s’infuriava e la mamma aspettava che la momentanea bufera passasse per intervenire con la sua parola pacata e suasiva. Quando da ragazzi si combinava qualche marachella e si voleva aver ragione a tutti i costi, pur avendo torto, mia madre, dicendo è inutile discutere, ci si perde in dignità, si rinchiudeva in un deciso dignitoso silenzio. Papà era, se così si può dire, più malleabile, ma non così mia madre.
Di origine ebraica pur essa, sebbene cristiana, quando arrivò la persecuzione nel 1938 la trovò preparata ad affrontarla. II dolore per la morte del marito, fu da mamma sopportato con energia tale da incutere anche in noi sue figlie, il coraggio di reagire. L’internamento nelle carceri di S. Agata di Bergamo, con le tre figlie, Nora, io e Clara di soli 12 anni, una sorella e due cognate, ed infine il martirio nel campo di sterminio di Birkenaus – Auschwiz (Alta Slesia) Polonia nell’aprile 1944 furono da lei affrontati con incrollabile serenità. Ricordo ancor oggi l’espressione del suo volto desolato e sereno nel medesimo tempo. Non ebbe mai parole di esecrazione verso i suoi persecutori, ma parole di commiserazione, soleva dire che chi fa del male sta peggio di chi lo riceve.
Vorrei che tante madri, sull’esempio della, mia, modesta ed eroica mamma, educassero i loro figli che saprebbero così affrontare meglio le inevitabili prove dell’esistenza dimostrando così di amarli veramente e, sensibilmente, diminuirebbero il numero di egoistici, estremisti sbandati.
Per natura io ebbi il carattere ipersensibile di mio padre unito a quel senso di giustizia e rettitudine che lo animava. Da parte di mia madre imparai la praticità, basata su una solida morale, giovevole a sè stessi e agli altri, esente da qualsiasi inutile esteriorità.
Mia sorella maggiore, Nora, rammento, si divertiva a farmi dispetti, stuzzicandomi spesso e volentieri; probabilmente le dava fastidio la mia calma e la mia olimpica tranquillità. Un certo giorno, infastidita più del solito, non diedi in escandescenza, ma pacatamente, mentre usciva dalla stanza, presi una sedia, eravamo in stanza da pranzo, e gliela tirai dietro: mi rimase impresso lo sguardo stupito di mia sorella che, dopo di allora, imparò a rispettarmi.
IV Capitolo: LA VITA AL CAMPO DI ELIMINAZIONE DI BIRKENAUS AUSCHWIZ -ALTA SLESIA – POLONIA CON LE MIE SORELLE E LA LORO FINE.
II campo era costituito da un ‘enorme quadrilatero circondato da filo spinato percorso da corrente ad alta tensione: sui lati erano situati dei pali in legno, lunghi diversi metri, che sostenevano delle garrite di legno ove, in continuazione, abitavano le sentinelle armate che sorvegliavano il campo. Una volta mi avvicinai forse troppo al reticolato e fuggii a precipizio perché il tedesco aveva già spianato il fucile per ammazzarmi.
II nostro campo era a Birkenaus ove era situato il forno crematorio; Auschvizs era a quattro o cinque Km di distanza e li avvenivano le vivisezioni, gli esperimenti su donne di diversa età: ricordo una biondina di 14 o 15 anni, col viso roseo e il corpo non ancora devastato, ischeletrito, che un giorno scomparve dal campo e ne tornò parecchio tempo dopo, ma in che stato: trascinava le gambe aveva un’enorme pancione: era stata ritenuta idonea a chissà quali esperimenti. Inoculavano dei germi per vedere le varie reazioni delle cavie umane. Le donne in genere venivano violentate, seviziate e, incinte, sottoposte a tali esperimenti da far inorridire gli animali a 4 zampe i più feroci.
Ricordo una politica polacca che aveva le gambe coperte da piaghe purulente: era anche lei reduce da Auschwiz. Quelle piaghe che orrore e che fetore mandavano, unite ad un linguaggio che la poveretta adoperava verso i suoi aguzzini, per noi incomprensibile, ma non certo fatto, penso di giaculatorie.
Appena arrivate al campo di Birkenaus la prima cosa che ci fecero fare fu spogliarci di ogni indumento personale in uno stanzone adibito all’uopo. Nude ci fecero entrare in un grande locale per la doccia. Non vi so dire quello che provai in attesa che l’acqua calda scendesse dalla doccia stessa, nel ritrovarmi in abito adamitico, a far conversazione mentre non più di 2 ore prima facevamo ancora parte degli esseri civili.
Dopo la doccia, gli abiti del campo. In mezzo ad un enorme mucchio di indumenti e a migliaia di scarpe, trovammo di che vestirci. Io per la mia alta statura, trovai oltre la camicia, le mutande e le calze di cotone che tutte dovevano avere, un assai largo abito nero a disegni bianchi, ma per le scarpe dovetti accontentarmi di un paio da uomo rossicce assai larghe. Su tutto questo trovai da mettere un bellissimo cappotto grigio azzurro
Le nostre cape erano donne dal triangolo verde. Donnacce della peggior risma, avanzi di galera, ausiliarie al servizio di nazisti. Ricordo ancora i loro visi dall’espressione patibolare da far inorridire. Questi esseri più ci maltrattavano più aumentavano di grado sino a diventare capo campo.
Prima di vestirci, con un abbigliamento che poteva benissimo far concorrenza a Christian Dior, la depilazione, la rasatura, specie nelle parti intime, era una cosa assai umiliante e degradante.
La tenuta con cui, incolonnate, in attesa dell’appello fuori dalla baracca, era tale che, guardandoci infagottate peggio delle zingare com’eravamo, ci venne perfino da ridere. Dopo l’appello, sotto un sole rovente di una splendida giornata di aprile, ci fecero trasportare 4-5 mattoni per ciascuna per parecchi Km lontano dal campo. Parecchie volte facemmo spola avanti e indietro dal campo. Dopo qualche viaggio eravamo sudate e affaticate: la tedesca, col randello, sorvegliava minacciosa. Noi, per ore, continuammo questa gioia. Arrivate alla nostra baracca o blocco ci fecero deporre i cappotti.
II giorno dopo riprendemmo lo stesso lavoro sotto un gelido vento, in un clima polare, col semplice abito di cotone! L’interno della baracca o blocco ove si stava era composto da colonne di pietra sostenenti delle piattaforme in legno ove, assai ristrette, stavamo in 4-5 persone. Ivi dormivamo su sacconi di juta ripieni di paglia e con una coperta ciascuna. Ricordo che per dormire ci stringevamo vicine e le coperte le stendevamo una sopra l’altra per scaldarci.
Per qualche giorno rimanemmo chiuse in baracca in quarantena: le mie sorelle erano state mandate in un altro blocco cosi, in questo periodo non potei neppure vederle. Terminato questo periodo d’isolamento cominciammo a partecipare alla vera esistenza del campo di sterminio.
Verso le 5 del mattino la levata: passava la capoblocco nel corridoio, tra le due file di piattaforme o coja che erano tre sovrapposte, con un nodoso bastone batteva sulle coje e contemporaneamente gridava: “aufstern”: alzarsi, c’è l’appello. In fretta ci vestivamo: in ordine il vestito e pulite le scarpe, riassettare il pagliericcio, metterne uno sull’ altro e ricoprire il tutto con le coperte e sempre tutto in perfetto ordine per evitare frustate. Poi fuori all’aperto e in piedi 5 per 5 incolonnate aspettare che arrivasse la capessa per contarci. Su due piedi passavano anche un’ora perché il campo era vastissimo e, nel frattempo, ci servivano la I° colazione consistente in una tisana con un odore e un sapore disgustoso, ma almeno era bollente. Finalmente arrivava in divisa della S.S. la contatrice: doveva essere ben brava in aritmetica per poter tenere una simile amministrazione. Dopodiché incolonnate sempre ci si avviava al lavoro fuori dal campo: dovevamo marciare diritte con passo marziale accompagnate dalle armonie di una banda di fisarmoniche e violini, sotto lo sguardo del tedesco: se avessimo mostrato alcunché di debolezza o altro, state pur sicuri che il giorno dopo saremmo state fra gli angeli attraverso il forno crematorio!
II nostro lavoro consisteva nel fare strade, scavando la terra col piccone e trasportandola con la pala nei vagoncini che una locomotiva adibita allo scopo, avrebbe trasportato altrove.
Nora e Clara facevano lo stesso mio lavoro, ma raramente eravamo insieme perché il loro gruppo lavorava in un altro posto.
A turno la capa ci picchiava una volta capitò a me: quanti schiaffi e calci presi dalle mani di quella ausiliaria delle S.S. Un’altra volta, ricordo, l’aguzzina era lontana dal mio gruppo ed io, con qualche altra, facevamo finta di scavare con la pala: la femmina se ne accorse e, quale belva umana, mi picchiò, mi frustò o alla fine mi diede un tremendo pugno sul naso provocandomi un’emorragia. Non dovevano ammazzarci, e la paura della donnaccia fu tale che mi fece sdraiare per terra tamponandomi il naso alla belle meglio. Rammento che guardandola, fissa, le dicevo con gli occhi, mentalmente: “perché, perché”. Spiegatemelo voi se potete.
A mezzo giorno breve pausa per la somministrazione di una nauseabonda zuppa di rape acide. Si riprendeva poi a lavorare e, verso l’imbrunire, nuovo incolonnamento, e marcia accompagnate fino al campo dal solito armonico concerto.
Giunte al campo di nuovo l’appello con relativa distribuzione di una fetta di pane nero acidulo con un cucchiaio di una roba rosa che veniva chiamata marmellata. Oppure il pane con una fetta di salame che chissà quali ingredienti conteneva perché aveva tutti i sapori fuorché quello del salame di casa nostra. Rammento che, quando si poteva perché era proibito parlare tra di noi, si conversava sul cibo, sui piatti che mangiavamo da civili: la fame che brutta bestia è, ma peggio è la sete. L’acqua che serviva per bere e per una sommaria lavatura aveva un sapore come di uova andate a male. Ricordo che una sera, mentre ci lavavamo, ci avvertirono che la tedesca stava frustando quelle che trovavano in altri lavatoi e noi a precipizio fuggimmo, e per quella volta, non le buscammo. Molte che lavoravano con noi si lasciavano andare, avvilite rifiutando il cibo e, con una selezione, buona parte di loro finì al forno. Esso era riservato da vivi a noi di origine ebraica, mentre per i politici serviva dopo morti.
La selezione veniva fatta da due esseri, maschio e femmina, in divisa S.S. che, prendendo il numero delle condannate lo segnavano sopra un registro che serviva evidentemente allo scopo. Il numero veniva stampigliato sul braccio sinistro come un tatuaggio appena arrivate al campo: io ebbi il numero 76821. “Poveretta” mi par di sentirmi dire, ma quanti sono quelli che non si accontentano solo di appagare la loro curiosità, ma considerano pure il mio tormento, il mio dolore, che mentre scrivo, mi attanaglia, mi scava dentro una sofferenza per una piaga mai rimarginata? Se spesso faceste, come faccio io, un’introspezione, quante cose verrebbero modificate per poter giovare a se stessi e agli altri. Penso che sia proprio giusto il mio motto “conoscere tacendo e giudicare meditando”. La doccia era fatta penso una volta alla settimana e, il controllo pidocchi, di buona memoria, mi parve fosse domenicale. Non si aveva più la nozione del tempo. Sapevo dell’avvicinarsi dell’inverno per il freddo e per il vento gelido, ma questo si faceva sentire assai prima dell’inverno stesso. La dissenteria più o meno l’avevamo tutte. Com’eravamo ridotte dopo diversi mesi di questa vita! Non sono mai stata grassa e, lunga com’ero potei un dì rimirarmi in un vetro la testa rasata a zero, come avevamo tutte, coperta da un fazzoletto rosso, magra, scheletrita, il viso pallido incavato: di vivo veramente avevo gli occhi che mi si empirono di lacrime vedendomi ridotta in quello stato. Prima della doccia ci facevano entrare, nude, in un locale caldissimo che avrebbe dovuto servire per asciugarci dopo la doccia, poi la doccia calda e dopo di che si entrava in uno stanzone, senza vetri alle finestre, in attesa degli indumenti che venivano nel frattempo disinfettati.
Un giorno, mentre con Clara la mia piccola sorellina di 12 anni, trasportavamo la terra caricandola sui vagoncini per uno scarto improvviso della locomotiva i vagoncini si mossero in modo tale che Clara ne fu travolta: la tirammo fuori con una gamba spezzata e uno squarcio profondo alla gamba stessa: cercai di tamponare la ferita come meglio potei, e in quel momento, arrivò il tedesco che mi cacciò via con un calcio, mentre la piccola veniva trasportata all’ospedale del campo stesso costituito da baracche in legno nauseabonde e puzzolenti.
Alla sera riuscii a vedere la piccola con la gamba ingessata e, dopo parecchio tempo, tornò a lavorare con un piede cha le rimase storto. Una sera, dopo il lavoro, in baracca, fui assalita da dolori lancinanti ai piedi: mi si erano congelati. Per fortuna solo l’alluce del piede destro marciva, non si rimarginò lo stesso fasciato in bende di carta che si sporcavano di fango, mentre si lavorava tutto il giorno con i piedi nella melma. Una mattina ci fermarono in baracca per la selezione. Naturalmente, ridotta come ero, mi presero il numero segnandolo sulla carta bianca: era la fine.
Quando il tedesco e la tedesca in divisa se ne furono andati, salii dalla piccola e insieme piangevamo ed io continuavo a ripetere: “mi hanno preso il numero; mi verranno a prendere per bruciare, viva nel forno.”
I russi in quel periodo avanzavano, anzi, degli aerei russi avevano addirittura sorvolato il nostro campo. L’agonia di quella notte: ogni rumore che avvertivo mi sembrava che fosse quello del forno. Passò un giorno e nessuno si fece vivo perché quella volta avevano sospeso il funzionamento dei forni.
Dopo ciò fui mandata a lavorare in una baracca fuori dal campo per fare trecce di stracci per pulire i cannoni. Dovevamo tagliare a strisce degli stracci per farne trecce che dovevano essere “fester”, sicure, solide e parecchi metri ne dovevamo fare al dì.
Ricordo che sotto le tavole, sostenute da, cavalletti di legno, mettevo la scodella per la zuppa che si empiva di polvere fornendo un insolito condimento alla zuppa stessa che ci veniva servita nella baracca ove lavoravamo. La mia scodella era di smalto rosso e arrugginita ove mancava lo smalto.
Ricordo le botte che prese la mia vicina perché non riusciva a fare i metri stabiliti. Ricordo inoltre una ragazza ch’era ridotta pelle ossa col viso della pelle di un roseo acceso: venne presa a calci e ogni volta che cadeva per terra e si rialzava erano pedate con quei maledetti stivali di cuoio che il tedesco portava. Il gioco durò finché il losco individuo si stancò e se ne andò dopo aver lasciato per terra gemente la disgraziata che non riuscì più a risollevarsi e a braccia fu portata fuori altrove. Così dalle mie sorelle fui definitivamente divisa.
Un giorno, ero ancora al lavoro con Clara, la tedesca passò in rivista il nostro gruppo e diede a Clara un potente schiaffo passandole davanti. Quando l’aguzzina se ne andò mi avvicinai alla piccola e le chiesi: “ti fa male?” Clara mi disse sorridendo: “Non è niente Laura”, mentre. Il viso le si gonfiava arrossandosi per il colpo ricevuto e una lacrima le rigava il viso: piccola martire eri sempre serena, dolcemente sorridevi: no, non eri fatta per rimanere, su questa terra.
Febbricitante per una broncopolmonite presa dal gelo, avendo come indumenti una camicia, un paio di mutande di cotone, un abito verde pure di cotone e le calze corte infradiciate con il dito con un buco sulla cima che marciva avvolto in sudice bende di carta, e gli zoccoli di legno olandesi come fattura, fui ricoverata nella baracca dei tisici. Senza nessuna cura con un dolore lancinante al lato destro del torace e una terribile arsura per la febbre, soffrii le pene dell’inferno. Ebbi evidentemente una pleurite e relativa tubercolosi: un polmone si calcificò da sé e l’altro rimase sclerotico. I miei genitori erano sani e robusti ed evidentemente lo ero anch’io.
Una politica polacca, che viveva sulla piattaforma sopra la mia, riceveva anche i pacchi da casa. Un giorno aprendo un pacco lasciò cadere al piano di sotto alcuni biscotti: io li presi, li nascosi e li mangiai a pezzettini quei provvidenziali dolci.
La sete si era fatta insopportabile e, finalmente, dal tetto della baracca, aveva in quei giorni nevicato, filtrò dell’acqua che scendeva a gocce che io bevvi parendomi manna caduta dal cielo. Una mattina ci riunirono a migliaia in uno stanzone e sapevamo che saremmo state tutte eliminate e qui ritrovai mia sorella Nora che avrebbe dovuto subire la mia stessa sorte. Clara ed altre avevano già lasciato il campo per altra destinazione e, siccome i russi avanzavano, per eliminarle, le raggrupparono in un campo mitragliandole dall’alto e, per essere sicuri che fossero morte, ci passavano sopra con i carri armati: cosi fini la mia piccola dolce martire a soli 13 anni di età.
Uscite dallo stanzone ci portarono incolonnate al blocco N 2 e ci chiusero dentro. Dopo qualche ora arrivò un tedesco in borghese che ci divise in due gruppi, uno avrebbe proseguito per altra destinazione e l’altro sarebbe state decimato al campo. Quando venne il turno del mio gruppo io mi sedetti su una coja esausta. In quel mentre Nora passò dall’altra parte e il tedesco si alzò e se ne andò col gruppo di cui faceva parte mia sorella stessa, fuori all’aperto ed io rimasi nell’interno della baracca. Mia sorella proseguì marciando col suo gruppo fuori dal campo, in pieno inverno tra neve e ghiaccio. Seppimo poi da una ch’era riuscita a tornare al campo ferita, che tutte le altre, compresa Nora furono mitragliate per la strada dovendo i tedeschi scappare nell’incalzante avanzata dei russi.
II gruppo che con me era rimasto in baracca fu all’aperto schierato. Un certo numero fu rinchiuso nuovamente in baracca e quello fu eliminato. II nostro fu avviato fuori dal recinto della baracca N° 2 e abbandonato a sé mentre i tedeschi scappavano facendo saltare i forni crematori. II mio abbigliamento era costituito da una camicia e un paio di zoccoli olandesi e sul tutto una coperta: figuratevi come potevo sentirmi all’aperto in mezzo al ghiaccio e alla neve che ricopriva il campo.
La prima cosa che facemmo fu di recarci alla baracca degli indumenti: una enorme catasta di essi riempiva il blocco stesso. Ricordo ancor oggi il mio abbigliamento costituito da un paio di calzoni bianchi e azzurri, camicia mutande di lana nocciola, due maglie di lana e un bel golf di lana con il corpino arancione e le maniche metà arancione e metà marrone, un abito verde scuro a righe gialle e sopra tutto avevo trovato da mettere un soprabito di lana marrone, testa di moro. Ero 45 Kg col vestito e scarpe e sono alta 1.72 senza tacchi: per fortuna cominciavano a crescere i miei ricci castani sulla pelata. Conservavo però sempre il fazzoletto in testa rosso a ricami neri.
Un’altra baracca di legno, adibita pur essa a deposito indumenti, era stata incendiata dai tedeschi, per fortuna non fecero in tempo a bruciare la nostra.
Ci lasciavano vestite da estate in pieno inverno, con i magazzini pieni di roba: probabilmente lo facevano per ritemprarci le membra al freddo e al gelo.
Il dattiloscritto termina qui, non racconta gli avvenimenti successivi alla liberazione e il ritorno in Italia, i capitoli V e VI non sono mai stati scritti. Altre memorie sono conservate presso l’archivio del Monastero di San Giacomo Maggiore in Pontida, in esse sono contenuti altri dettagli della prigionia e il racconto del ritorno, riportati da Gabriele Medolago e già esposti nel capitolo relativo all’intera famiglia.
[1] Gabriele Medolago, Ambivere e le sue contrade, Ambivere, Comune di Ambivere, 2009, pp. 224-229 capitolo Gli ebrei Levi di Ambivere. Le notizie sulla famiglia di Guido Levi sono tratte principalmente da questo testo.
[2] Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (in acronimo MVSN), istituita formalmente il 28 dicembre 1922 dopo la conquista del potere da parte di Mussolini, era una milizia di partito diventata parte ufficiale delle forze dello stato e dal 1924 una autonoma forza armata. Inizialmente pensata come milizia a uso esclusivo del PNF, rispondeva solo al Capo del governo e a lui solo era dovuto il giuramento in contrasto con l’obbligo di giuramento al sovrano. La MVSN doveva “provvedere in concorso coi corpi armati della sicurezza pubblica e con l’esercito a mantenere nell’interno l’ordine pubblico, preparare e conservare inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell’Italia nel mondo”.
[3] L’Associazione Fascista della Scuola, istituita nel 1931, raggruppò tutte le precedenti organizzazioni degli insegnanti.
[4] L’Unione Nazionale Protezione Antiaerea era un’organizzazione di protezione civile istituita il 31 agosto 1934. La partecipazione alle attività di prevenzione e salvataggio fu basata sul volontariato fino al 18 giugno 1940, quando l’istituzione venne militarizzata, dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
[5] La memoria di Laura Levi è conservata presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Bergamo (da ora in avanti Isrec Bg), ed è integralmente trascritta di seguito.
[6] Ada Tedeschi, nata a Firenze il 1 febbraio 1883, residente a Milano.
[7] Cfr. Liliana Picciotto, Il libro della Memoria, Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 2° edizione 2002, p. 396, nella scheda come anno di nascita è indicato il 1894, gli altri dati danno però la certezza dell’identità. E’ più che possibile che anche fonti ufficiali possano avere discordanze sia per incertezza documentale, sia per errori burocratici. Laura Levi nella testimonianza resa afferma che all’arrivo sia la madre sia le zie furono separate dalle tre sorelle e inviate ai forni crematori. ASBg, prefettura Uffici Amministrativi, faldone b. 2.
[8] Cfr. Mauro Danesi, Frammenti e memorie di storia locale. Conseguenze e riflessi, in ambito locale, dell’emanazione delle leggi razziali e dell’antisemitismo durante il regime fascista. Eroismi senza chiasso, La famiglia Levi, Intervista a Maria Perico, 2001, consultabile presso il Museo delle storie di Bergamo.
[9] Cfr. Mauro Danesi, La famiglia Levi, op. cit.
[10] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, allegato a lettera di trasmissione, Legione Territoriale Carabinieri Milano, Stazione di Ponte S. Pietro, prot. 45797 del 18 febbraio 1944.
[11] Cfr. Liliana Picciotto, Il libro della Memoria, op. cit., p. 49; ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, appunti allegati alla lettera del Capo della provincian. 16/8 in data 28 febbraio 1944.
[12] Cfr. Mimma Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1994, pp. 41-46.
[13] L’infermeria di Birkenau, un luogo dove venivano ricoverati i deportati malati: privo di qualsiasi prevenzione igienica e di medicinali, era più un’anticamera della morte che un luogo di cura, ma non si doveva lavorare; dal “revier” solo i più resistenti uscivano per essere rinviati alle baracche e ai “kommando” di lavoro, la maggior parte moriva o veniva “selezionata” e uccisa dai medici tedeschi del campo.
[14] Comune di Ambivere, Stato Civile, registri di morte, anno 1957, atto n. 2.
[15] Cfr. Mauro Danesi, Frammenti e memorie di storia locale, La famiglia Levi, op. cit.
[16] Cfr. Medolago Gabriele, Ambivere e le sue contrade, op. cit., p. 228.
[17] Probabile trascrizione fonetica, non ho rintracciato località corrispondenti.
[18] Cfr. Medolago Gabriele, Ambivere e le sue contrade, op.cit., p. 229.
[19] Si tratta della contessa Maria Passi Silvestri.
[20] Cfr. Il drammatico Ferragosto del ’43, Argia Sonnino Cervo ricorda quando prelevarono padre, nonna e zia, “Il Giornale di Bergamo Oggi”, 25 aprile 1991.
[21] Cfr. I bergamaschi vittime del nazismo saranno indennizzati dalla Germania, L’Eco di Bergamo, 14 giugno 1968.
[22] Tutti i documenti citati di seguito relativi alla famiglia Levi sono in ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, per i documenti non riprodotti per intero si specificano il mittente e il relativo protocollo.
[23] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, P.F.R., Federazione Provinciale Fasci Repubblicani, prot. n. 938 del 31 dicembre 1943.
[24] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Questura di Bergamo, prot. 13004/43 del 14 gennaio 1944.
[25] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Prefettura di Bergamo, senza protocollo del 20 gennaio 1944.
[26] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Prefettura di Bergamo, prot. 217/5/ris del 15 febbraio 1944.
[27] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Prefettura di Bergamo, prot. Div. 1^ n. 4537 del 25 febbraio 1944.
[28] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Prefettura di Bergamo, prot. 16/8 del 28 febbraio 1944.
[29] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, GNR Legione Territoriale Carabinieri Milano, Distaccamento di Ponte San Pietro prot. 135 del 1 marzo 1944 e 136 del 9 marzo 1944.
[30] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Prefettura di Bergamo, prot. 4537 div 1 del 21 marzo 1944, minuta.
[31] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Comune di Ambivere prot. 902 data illeggibile, pervenuta alla Prefettura il 13 aprile 1944.
[32] Luigi Di Pietrantonio, nato a Chieti il 1 luglio 1882, funzionario di carriera del Ministero delle Finanze giunge a Bergamo il 13 maggio 1941 dopo aver retto l’Intendenza di Cremona e rimane all’intendenza di Bergamo fino al termine della carriera. Nella sua qualità di Intendente di Finanza lo troveremo fra i protagonisti nella controversia con il Ministero sui beni di Marcella Conti e Renato Melli. Il 22 dicembre 1945 si sposa con Lucia Ceccone a San Daniele del Friuli. La copia risiederà a Bergamo, dove la moglie rimarrà anche dopo la morte di Luigi avvenuta a San Daniele del Friuli il 22 agosto 1953.
[33] ASBg, Gab. Pref. b.e. 1, fasc. 29, Intendenza di Finanza di Bergamo prot. 571 Gab. ris. del 30 giugno 1944.