Bianca Viterbo
Rovetta
Scheda di Famiglia
Bianca Viterbo, dati non conosciuti come pure nomi e dati del padre, della madre, della sorella e del fratello presenti a Rovetta.
(capitolo di riferimento: Gli sfollati: nuove presenze ebree italiane nella provincia / Fuggiaschi e clandestini)
A Rovetta era sfollata da Milano per sfuggire ai bombardamenti la famiglia di Bianca Viterbo: padre, madre, fratello e sorella[1]. Purtroppo la testimonianza rilasciata da Bianca dopo la liberazione non contiene né i suoi dati anagrafici né i nomi dei suoi congiunti.
I Viterbo erano rimasti a Rovetta all’8 settembre, dopo la liberazione Bianca ha lasciato una preziosa testimonianza degli avvenimenti loro occorsi[2]:
Alla promulgazione delle terribili leggi del 30 novembre 1943, in cui si decreta che tutti gli appartenenti alla razza ebraica, devono esser posti in campi di concentramento, ci troviamo, tutta la famiglia (composta dai genitori, due figlie ed un figlio) a Rovetta, grazioso paesino di montagna nell’alta valle Seriana (Bergamo) dove ci eravamo recati per sfollamento in seguito ai bombardamenti di Milano. In un primo tempo si pensa di rifugiarsi in Svizzera; ma tale idea viene quasi subito scartata, soprattutto per la salute poco buona di mio padre già anziano, che difficilmente avrebbe potuto sopportare i disagi del viaggio… in paese siamo ben voluti da tutti ed in parte anche protetti dalle autorità locali, infatti, quando qualche tempo prima ogni comune dovette denunciare gli ebrei che vi dimoravano, il Comune di Rovetta rispose che non ve ne erano, mentre oltre a noi, vi si trovavano anche altre famiglie.
Isolati dal mondo, privi di notizie dei nostri parenti ed amici, con il solo conforto della radio, che ci incoraggia con le buone notizie, passiamo diversi mesi in una discreta tranquillità, Nel frattempo nella stessa nostra casa viene ad abitare al pianterreno il sig. Gino Sinigaglia, anche lui ebreo, con la moglie, con i quali si fa amicizia. Una sera del febbraio del ’44, in seguito a denuncia, alcuni agenti in borghese, appartenenti alla Muti, vengono in automobile da Milano a ricercare il sig. Gino e, non trovando nessuno in casa, essendo lui in giro per il paese e la signora partita, salgono da noi sia per chiedere informazioni, sia per aspettarlo. Ma inutilmente attenderanno, perché il sig. Sinigaglia, avvertito, si rifugia in casa d’amici: così che mentre due stanno in auto davanti alla porta di ingresso, altri due, uno dei quali il capo, si installano nella nostra cucina e si fermano a conversare con noi sino a mezzanotte e se ne vanno dicendo di non aver timore per quella notte di essere visitati dai ladri, poiché essi avrebbero fatto buona guardia alla nostra casa… La mattina dopo eccoli nuovamente, non senza aver chiesto informazioni per il paese, e ci chiedono ove sia la famiglia Viterbo ed alla risposta di mio padre che siamo noi, il capo replica: “Sapete che avete un nome pericoloso!“ e nello stesso tempo salutandoci gentilmente se ne vanno e nel pomeriggio dello stesso giorno lasciano il paese…
Noi però, temendo un loro ritorno, ci rifugiamo in una cascina sempre nelle vicinanze e vi rimaniamo per 3 mesi circa. Quivi ci capita un piccolo incidente… In questo periodo la classe di mio fratello viene richiamata alle armi, ed egli, per il timore di essere fermato … e presentare i documenti, avendo soltanto i suoi regolari, non esce quasi mai di casa. Nel pomeriggio, per alcuni maiali non denunciati, dei fascisti fanno una perquisizione in tutte le cascine della nostra zona e vengono anche dove abitiamo noi… fortunatamente lasciano indietro proprio la cucina dove si trova mio fratello.
Ritorniamo nella prima abitazione… arriviamo al 12 sett. ’44 giorno della nostra cattura. Dietro denuncia contro il nostro padrone di casa, verso le ore 13 di quel famoso giorno, arrivano in paese una cinquantina di appartenenti, parte alle Brigate Nere, parte alla Guardia Repubblicana, con un capitano tedesco. Contrariamente al solito, in cui vi era sempre qualcuno che ci avvertiva di simili visite, quella volta noi ci accorgiamo, quando essi sono già nel cortile e davanti alla nostra porta d’ingresso.
Essi visitano le cantine e vi trovano nascosti alcuni motori di auto ed una valigia contenente una divisa da ufficiale russo; insospettiti cominciano a perquisire tutta la casa. Mia sorella che abita nello stesso paese, ma in casa d’amici, viene per avvisarmi, ma arriva troppo tardi. Quando essi entrano nelle nostre camere e vedono mio fratello gli chiedono le carte e gli domandano come mai essendo del 1922 non sia sotto le armi, per evitare che lo credessero un renitente e come tale lo prendessero e fucilassero… mio padre dichiara la nostra appartenenza alla razza ebraica. II tenente delle Brigate Nere ci fa allora piantonare tutti, mia sorella, indossando ancora il soprabito, non senza fatica riesce a farsi passare per una visitatrice ed infine la lasciano uscire ed in tal modo si salva. Noi siamo condotti nella piazza, caricati sul camion e portati a Bergamo, dove ci consegnano alla Questura.
II vicequestore Giongo vedendo le cattive condizioni di mio padre, lo fa ricoverare nell’ospedale di Bergamo e noi altri tre siamo condotti alle carceri S. Agata dove rimaniamo per 33 giorni … I nostri nomi per due volte figurano nella lista di quelli destinati a partire per S. Vittore e quindi in Germania, ma ogni volta il vicequestore fa rimandare la nostra partenza. Una domenica mattina ci fa venire a prendere a S. Agata da un questurino, il quale annuncia ufficialmente che dobbiamo partire per Milano; invece condotti alla Questura, con il pretesto di non aver personale a disposizione ed approfittando dell’assenza del Questore, Giongo[3] ci rilascia un foglio con il quale dobbiamo presentarci a Milano entro tre giorni e consegnarci. In verità da soli varchiamo la soglia della Questura e siamo liberi.
Bianca Viterbo
[1] Dorina Di Vita: Gli ebrei di Milano sotto l’occupazione nazista, in Quaderni del Centro di Studi sulla deportazione e l’internamento n. 6, Roma Associazione nazionale ex deportati 1969-1971, pp. 64 e 65, reperibile online sul sito: https://anei.it/quaderni-anei-2/, menù Quaderni Anei. La testimonianza è conservata a Milano presso il Museo del Risorgimento Nazionale 30525. Cartella 289, una copia è anche presente in ACDEC, Fondo Vicissitudini dei singoli, b. 29, fasc. 894, Viterbo Bianca.
[2] Dorina Di Vita: Gli ebrei di Milano sotto l’occupazione nazista, op. cit.
[3] Si tratta di Francesco Giongo, vicequestore a Bergamo, che nel 1939 aveva aiutato l’amico di famiglia Achille Viterbi e la sua famiglia regolarizzando il passaporto scaduto della moglie Luria Maria firmandone l’autenticazione e facendolo poi firmare al Questore e consentendo così ai Viterbi di partire per gli Stati Uniti.