Le famiglie di Ernesto Jachia, Lascar Alberto e Lascar Umberto
Aviatico
Scheda di famiglia
Ernesto Jachia, la moglie Andreina Ferro e i figli Mario Jachia nato nel 1929, Elsa, nata nel 1931, Sergio, nato nel 1939 e Roberto, nato il 1 agosto 1942.
Alberto Carubà, dati non noti, cognato di Andreina Ferro.
Alberto Ferro, nato nel 1877 e la moglie Virginia Ferro, nata nel 1873
Umberto Lascar, nato a Pisa il 27 gennaio 1888, la moglie Elvira Caffaz, nata a Torino il 27 gennaio 1898; i figli Enrico nato a Torino il 28 dicembre 1922 e Dario nato a Torino il 10 gennaio 1925.
Alberto Lascar, nato nel 1893, a Firenze, la moglie Elvira Del Mare nata nel 1895 a Napoli, i figli Ermanno, nato il 15 maggio 1922 e Luciana, nata il 28 dicembre 1924 a Genova.
(Capitoli di riferimento: Fuggiaschi e clandestini)
Aviatico è un piccolo comune a circa mille metri di quota a cavallo fra le valli Serina e Seriana e circonda con le sue frazioni di Ama, Ganda e Amora i monti Cornagera e Poieto. Nel 1936 aveva 800 abitanti, ora poco più di 500; la Cornagera delimita a nord l’altopiano di Selvino, paese che già negli anni trenta godeva di un forte sviluppo turistico, sede di villeggiatura di numerosi benestanti milanesi. Di questo sviluppo beneficiò in piccola parte anche Aviatico, sia attraverso la costruzione di un nuovo albergo che con l’affitto di numerose abitazioni ai villeggianti, introiti che contribuivano a integrare i magri redditi dell’economia prevalentemente agricola del posto. È in questo piccolo comune che trovarono ospitalità e rifugio quattro famiglie ebree che, dopo aver tentato senza riuscirci di varcare il confine svizzero, erano giunte quasi casualmente ad Aviatico alla ricerca di un rifugio sicuro[1]. La prima a giungere ad Aviatico fu la famiglia Jachia[2], risiedevano a La Spezia una città che con la sua provincia al censimento del 1938 contava 219 residenti ebrei, di questi solo 8 furono deportati: probabilmente, come successe per gli Jachia fu un addetto alla questura a metterli sull’avviso e consigliare la fuga[3].
Un libro edito nel 2014[4] ci aiuta a fare chiarezza su chi possa aver avvisato e aiutato gli Jachia e gli altri ebrei di La Spezia: nella Questura si era formato attorno ai commissari Nicola Amodio e Lodovico Vigilante una rete di fuga verso la Svizzera per ebrei e perseguitati politici, con loro collaboravano altri agenti e il parroco Giovanni Bertoni[5]. La loro rete fu scoperta e i poliziotti furono arrestati nel novembre 1944, percossi e torturati furono poi tradotti nel campo di transito di Bolzano e il 1 febbraio 1945 deportati a Mauthausen dove giunsero il 4 febbraio. Con loro sul convoglio anche altri poliziotti di La Spezia: le guardie Annibale Tonelli e Domenico Tosetti. Solo Tosetti farà ritorno a casa. Non furono i soli arrestati: anche il brigadiere Alfonso Filardi, il vicebrigadiere Biagio Sullo, la guardia Giuseppe Cavallo, le guardie ausiliarie Domenico Mazzola e Francesco Caruso furono arrestati, nessuno tornò a casa. Anche don Bertoni fu arrestato in quello stesso periodo assieme ad altri otto sacerdoti, anche loro furono imprigionati e trattenuti in condizioni disumane nel carcere di Marassi, ma vennero scarcerati il 29 marzo 1945[6]. Ci furono poi altri agenti che, per le loro idee politiche, furono arrestati e consegnati ai tedeschi che li spedirono nel campo di Bassano del Grappa: Alfio Nicotra, Lino Corvi e Bartolomeo Ceraulo. Questi ultimi, per fortuna, riuscirono a tornare.
Gli Jachia lasciarono la città e dopo essersi rifugiati in un paese dell’interno tentarono di raggiungere la Svizzera, con loro anche Alberto Carubà, cognato di Andreina, da poco rimasto vedovo. Mario, che ha raccontato le vicende della famiglia in una memoria scritta, ricorda che tentarono la fuga da Chiasso, in accordo con un finanziere che aveva contattato dei contrabbandieri per aiutarli a passare clandestinamente il confine. Purtroppo, uno dei contrabbandieri tradì, ma il finanziere fu in grado di avvisarli e fornì loro una guida per tornare a Como[7]:
la guida che ci aiutò per un certo tratto era un contrabbandiere, e dopo un’ora circa di cammino con sulle spalle i bambini più piccoli e lo zio traumatizzato dalla paura, in quell’istante un sentore di pericolo, il contrabbandiere ci fece nascondere in un cimitero dove mia madre e mio fratello (rimasero) accovacciati vicino a una tomba e tappando la bocca a mio fratello Roberto di pochi mesi (nato nell’agosto 1942) per non farci scoprire. L’accordo con il contrabbandiere passato il pericolo avrebbe acceso come segnale una sigaretta, anche perché i tedeschi perlustrando attorno al cimitero erano attrezzati con cani. Terminato il pericolo il contrabbandiere andò per la sua strada e ci segnalò quella per la stazione ferroviaria di “Como Borghi”. Camminammo per un’altra ora, ci fermò una pattuglia di due ragazzini della 10° MAS con mitra spianati chiedendoci da dove venivamo e dove andavamo. Mio padre gli offrì delle sigarette comprate a La Spezia in arsenale militare, la risposta dalla domanda rispose: veniamo da casa e andiamo a casa poi li salutò.
Gli Jachia raggiunsero Milano dove poterono contattare un cliente della ditta del padre di Elvira, il signor Lanzani che, attraverso un suo socio, il signor Cartasegna, li indirizzò ad una villa di Selvino di proprietà di un amico, gerarca fascista, di cui aveva al momento la disponibilità. Gli Jachia furono ben presto contattati da un tassista di Ama, Gino Fogaccia, che li consigliò di non rimanere nella villa: se il gerarca fosse arrivato avrebbe potuto essere pericoloso per loro, e li invitò a trasferirsi ad Ama. Non si sa come Fogaccia potesse conoscere la loro identità ebraica, possiamo solo fare una supposizione: in quel periodo stava svolgendo una supplenza a Selvino l’insegnante Marcella Stefanelli di La Spezia, persona che gli Jachia conoscevano e verso cui gli Jachia ebbero sempre grande riconoscenza poiché aveva avuto un ruolo nella loro salvezza. Gli Jachia ad Ama presero in affitto un appartamento che i Fogaccia affittavano ai villeggianti. Dopo qualche tempo, giunse ad Ama un’altra famiglia, quella dei genitori di Andreina: Alberto Ferro e la moglie Virginia[8]. Gli Jachia strinsero rapporti di amicizia con i loro soccorritori, Elsa in particolare strinse una profonda amicizia con la giovane Giuditta Usubelli[9]. Dopo circa un anno di permanenza le risorse degli Jachia si stavano esaurendo, Ernesto con Alberto Carubà partì per La Spezia per cercare di vendere delle merci che aveva lasciato nascoste presso una famiglia, la vendita si rivelò impraticabile e furono costretti a passare la Linea Gotica e cercare rifugio nella zona liberata, dove però Alberto trovò la morte in un tragico incidente stradale. La situazione ad Ama si fece nel frattempo molto pesante per Mario: i falsi documenti non potevano nascondere l’età da reclutamento. Un imponente rastrellamento antipartigiano agli inizi del 1945, che coinvolse tutte le frazioni del paese, convinse Mario che era troppo pericoloso restare ad Ama: sia come ebreo che come ariano sarebbe stato comunque arrestato, mettendo anche a rischio la famiglia. Decise di tornare a Milano dove meglio poteva confondersi con la popolazione, anche Andreina non si sentiva più al sicuro e lasciato il figlio più piccolo ai nonni lo seguì con gli altri. A Milano, facendosi passare per sfollati che avevano perso i documenti a seguito di un mitragliamento aereo, riuscirono ad ottenere nuove carte di identità con il cognome Sbrana. Anche a Milano corsero un grosso rischio[10]:
Alloggiammo in un albergo, appena entrati nella hall di sfuggita nella cabina telefonica trovai un ufficiale in divisa della 10° MAS, il quale era spezzino, un certo Paternò, che mi conosceva fin da piccolo e che e di lavoro vendeva i giornali davanti al nostro negozio. Si proseguì per la mia camera senza dare importanza all’incontro. In camera mia madre voleva cambiare alloggio causa l’incontro con Paternò; io sconsigliai questo perché secondo il mio parere avendoci individuato poteva raggiungerci in ogni nostra posizione.
Un milite tentò anche un’estorsione, ma Mario non aveva che 50 lire, il giorno successivo incontrò l’ufficiale e gli raccontò il fatto, ma questi gli disse “non ti preoccupare io abito nella camera sopra la vostra e se si dovesse ripetere l’episodio, con un bastone della scopa battete sopra il soffitto per 3 volte e vedrai che i miei uomini interverranno a vostro favore”[11].
Mario riuscì a trovare anche un lavoro che permise loro di sopravvivere e giungere indenni alla liberazione.
Dopo la liberazione gli Jachia poterono tornare a La Spezia. Elsa è morta nel 1998, Mario è morto 10 luglio 2010; Sergio il 9 giugno 2019 è tornato ad Ama a rivedere i luoghi dove si era rifugiato bambino e a conoscere chi era riuscito a rintracciarli per ricostruire la loro storia. Sergio era anche presente assieme a Enrico Lascar all’incontro a Milano con alcuni studenti dell’ISIS Giulio Natta di Bergamo l’11 febbraio 2019.
Non molto dopo gli Jachia arrivarono ad Aviatico anche le due famiglie dei cugini Umberto e Alberto Lascar. Umberto, la moglie Elvira Caffaz e i figli Enrico e Dario risiedevano a Torino, al censimento razziale del 1938 aveva dichiarato di esercitare la professione di commerciante ambulante[12]. I Lascar abitavano a Torino in via Giacosa 19 “Una bella e robusta costruzione in cemento armato, scala in marmo con mancorrente in legno. La casa fa uso di ascensore e del termosifone centrale.” Così viene descritta dall’impiegato dell’Istituto San Paolo di Torino incaricato, dopo il decreto di sequestro, di inventariare i beni presenti nell’abitazione[13]. L’appartamento era al quarto piano, la descrizione degli ambienti evidenzia che lo stabile non è stato danneggiato dai bombardamenti a parte un paio di vetri della prima camera con le finestre su via Giacosa. Il palazzo si trova a metà strada tra la stazione di Porta Nuova e il castello del Valentino, lontano dalla zona industriale, ma vicino allo scalo ferroviario, forse furono proprio quei danni che convinsero i Lascar a lasciare Torino dopo i primi bombardamenti e sfollare prima a Viareggio e poi a Camaiore, dato che Viareggio rientrava fra le località di villeggiatura non permesse agli ebrei.
Alberto si era sposato con Elvira Del Mare il 14 luglio 1921 a Genova dove si era da poco trasferito, visto che le pubblicazioni di matrimonio vengono fatte anche nel comune di Torino. A Genova erano nati i figli Ermanno e Luciana i Lascar abitavano alla nascita dei figli in piazza San Donato n. 23[14].
Umberto e Alberto erano legati da rapporti di parentela: il padre di Alberto era cugino di Umberto, inoltre la moglie di Umberto, Elvira Caffaz era cugina di Andreina Ferro.
Alle prime avvisaglie di pericolo si erano rifugiati sul monte Matanna, poi a Lido di Camaiore ed infine a Genova, dal cugino Alberto.
Le due famiglie tentarono assieme il passaggio verso la Svizzera, in treno fino alla stazione di Asso Canzo e da lì a piedi verso il confine. Furono guidati da contrabbandieri fino ad un valico sopra Lugano e arrivarono alla rete di confine[15]:
Sotto la pioggia battente, mentre mamma Elvira provava a proteggere i ragazzi con il proprio corpo, cercarono in tutti i modi di sollevarlo per passarci sotto ma rimasero impigliati nelle maglie e negli aculei di ferro. Eppure questo non bastò a fermarli. Vedevano le luci di Lugano splendere giù nella conca e per loro era un sogno che quasi stavano afferrando con le mani. Tentarono ancora, seppur sfiniti. Le guardie svizzere si accorsero del loro tentativo e si fecero avanti. In modo deciso e perentorio, quasi asciutto, negarono loro l’ingresso. Non accettarono di farli passare. Diedero alle due famiglie della cioccolata calda, li rifocillarono e li coprirono alla bell’e meglio con delle coperte militari, ma non avevano intenzione di permettere che degli ebrei entrassero in territorio svizzero. […] sicuramente dovevano ritornare indietro. Furono momenti davvero terribili. I Lascar scelsero la strada alta, quella meno pericolosa a livello di percorrenza, ma anche la più insidiosa perché bisognava passare accanto al presidio tedesco. Fortunatamente in quel momento, era una freddissima sera invernale, i soldati stavano mangiando nella Cantoniera seduti al caldo e non si accorsero delle persone che passavano poco distante.
Al paese incontrarono un finanziere che chiese loro come mai fossero ancora lì e, udito il racconto, li lasciò andare. A Milano, un’amica di Enrico che lavorava in comune procurò loro documenti falsi. Come arrivarono ad Aviatico non è rimasto nei ricordi di famiglia, è probabile che fossero in contatto con gli Jachia, loro parenti, Umberto e la sua famiglia trovarono rifugio nella casa della maestra Orsolina Berbenni Usubelli; Basilio Mosca, proprietario della trattoria Tre Corone ospitò in una casa di sua proprietà, adiacente alla trattoria, Alberto e i suoi. Enrico era in età di leva, e come Mario dovette spesso nascondersi; dopo il rastrellamento cercò a sua volta in Milano un luogo più adatto per mimetizzarsi, raggiunto in albergo il cugino Jachia fu presente al tentativo di estorsione e all’incontro con l’ufficiale. Come Mario anche Enrico cercò lavoro e riuscì a trovalo in una fabbrica di pistoni per uso bellico, dove saltuariamente trovò impiego anche il fratello Dario, a sua volta in pericolo di reclutamento forzato. Malgrado alcune peripezie, tutti i Lascar riuscirono a giungere indenni alla liberazione.
Umberto Lascar e la sua famiglia tornarono a Torino e riuscirono a rientrare nella loro abitazione. Elvira scrisse subito una lettera a Orsolina Usubelli e fra le altre notizie disse “sono arrivata a Torino e per prima cosa sono andata in sinagoga a ringraziare Dio e Mosè chiedendo di mandarvi tanto bene”[16]. Il 21 novembre 1947 Umberto ricevette dall’Istituto San Paolo, che svolgeva per conto dell’Egeli il compito di amministrare i beni espropriati agli ebrei, l’invito “ad effettuare presso questo Istituto il pagamento del saldo risultante dall’unito rendiconto definitivo redatto a norma dell’art. 8 del citato Decreto legislativo[17], per la gestione dei beni a suo tempo sequestrati in suo danno […] Il detto pagamento dovrà essere effettuato nel termine massimo di giorni quindici, con l’avvertenza che, in difetto e senza altro avviso, la suindicata amministrazione provvederà a norma di legge.”[18] Il fascicolo non contiene né una risposta né una ricevuta, risulta solo un mandato in data 29 novembre 1947 a provvedere all’incasso dalla ditta Lascar Umberto per la somma di L. 1.541. Non risultano ricevute o scritti di risposta, forse Umberto pagò o forse si comportò come Emilio Artom che ad analoga richiesta del 14 novembre 1947 rispose “ritiene ingiusto di dover pagare un servizio che non solo egli non ha richiesto e che non ha dato allo scrivente nessun vantaggio, ma che è conseguenza di un ingiusto procedere. Ritiene dunque di non aver nessun dovere di provvedere a tale pagamento”[19]. Umberto è morto il 15 giugno 1968, sua moglie Elvira il 27 giugno 1988, anche Dario è morto il 15 marzo 2010. Enrico era invece presente all’incontro con gli studenti dell’ISIS Giulio Natta di Bergamo il 9 giugno 2019.
Alberto Lascar e i suoi tornarono a Genova, tennero sempre contatti per lettera o telefono con la famiglia Mosca. Ermanno si è sposato nel 1948 a Genova con Luisa Bonedi, è morto a Genova il 7 marzo 2007; Luciana si è sposata con Bruno Franco nel 1963, è morta a Genova il 1 marzo 2010, non risulta abbiano avuto figli.
Giuditta Usubelli ricorda anche un altro episodio: nel gennaio 1945 era arrivata in paese una giovane coppia, lui un ufficiale dell’esercito, lei un’ebrea in attesa di un figlio[20]:
Era un bella donna imponente e sicura di sè, che mostrava con orgoglio anche un po’ sfacciato il suo pancione, in un tempo in cui le donne che aspettavano un bambino dovevano rimanere coperte e mostrarsi poco in pubblico, per pudore e per non attirare il malocchio. La signora invece se ne andava in giro senza paura. II marito la lasciò nella casa vicino alIa chiesa, dal Basilio Mosca, che gestiva la Trattoria Tre Corone, dove venne colta dalle doglie. Era un giorno freddo e gelido, con il vento che bloccava il respiro. Subito mandarono a chiamare la levatrice Luisa Berlendis, originaria di Lonno, che abitava a Selvino. Venne alla luce un maschio e la levatrice continuò per parecchio tempo a venire in paese per controllare che stesse bene e per medicare la giovane puerpera. Ma per sfuggire ai controlli adduceva la scusa di raccogliere le prime cicorie: si portava il suo cestino e, una volta svolta la sua mansione, si fermava nel prato.
Di questa coppia è rimasto solo il ricordo della presenza, nessuno ne ricorda i nomi e nei comuni di Aviatico e Selvino il bambino non è stato registrato.
[1] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, Silele Edizioni, Bergamo, 2020. Le notizie relative alle vicende dei fuggiaschi sono tratte da questo libro; la ricerca, partita da un colloquio tra Giuditta Usubelli e il sindaco di Aviatico Mattia Carrara nel 2018, fu poi sviluppata da Aurora Cantini che riuscì a rintracciare alcuni membri delle famiglie.
[2] Negli anni 50, a seguito di una ricerca nei registri di stato civile, il cognome è stato riportato alla forma della sua prima registrazione ufficiale: Iachia, si è però preferito conservare la dizione in uso all’epoca dei fatti.
[3] Mario Jachia, che allora aveva 14 anni, ha raccontato le vicende della famiglia in una testimonianza scritta, riportata alle pagine da 145 a 150 di Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit. Nella testimonianza Mario colloca la fuga nel dicembre 1942, gli eventi che descrive non possono però essersi svolti in quell’anno: un arresto per internamento non sarebbe stato comunicato dalle autorità italiane in anticipo e non risulta che il padre fosse coinvolto in attività antifasciste, inoltre Mario dice “i tedeschi ci avrebbero portati via”, a quella data i tedeschi erano presenti a La Spezia solo con piccole unità di marina e ufficiali di collegamento e non avevano alcun potere al di fuori delle loro funzioni. La Spezia venne occupata dai tedeschi il 9 settembre 1943, ma solo il 30 settembre cominciarono i primi arresti di ebrei in città ad opera dei tedeschi; le autorità italiane in questa prima fase collaborarono, spesso di malavoglia, coi tedeschi, l’inizio dell’attività sistematica di cattura da parte italiana si ebbe solo dopo il 30 novembre 1943. Gli arresti precedenti l’8 settembre riguardano o ebrei stranieri o italiani, anche ebrei, sospettati di opposizione al fascismo, per l’invio in campi di internamento o al confino. In un altro passo della testimonianza Mario racconta che dopo la mancata fuga, andando verso Como Borghi, dovettero nascondersi da una pattuglia tedesca: nel 1942 non c’erano forze tedesche a presidiare i confini con la Svizzera né tantomeno il territorio limitrofo, né potevano incontrare successivamente giovani della X MAS, allora solo una unità di incursori di marina; racconta anche che il padre dopo un anno di permanenza ad Ama, esaurite le risorse economiche, ritornò con Alberto Carubà a La Spezia sperando di poter vendere le merci del negozio nascoste presso una famiglia, ma vista l’impossibilità della vendita oltrepassarono la Linea gotica e raggiunsero il territorio liberato, e questo non poteva succedere che verso la fine del 1944 o gli inizi del 45. Si tratta quindi di un evidente errore della memoria nella datazione.
[4] Vincenzo Marangione e Tarcisio Trani, Polizia e cittadini nella resistenza, i martiri dimenticati, Lunaeditore, Marina di Carrara, 2014.
[5] Brevi schede sui due commissari, citato anche don Bertoni, si possono trovare sul sito I Caduti della Polizia di Stato, https://www.cadutipoliziadistato.it
[6] Sessant’anni fa l’odissea dei nove preti arrestati e torturati, Cds New il quotidiano on line della Città di La Spezia, 11 aprile 2015. http://www.cittadellaspezia.com/La-Spezia/Attualita/Sessant-anni-fa-l-odissea-dei-nove-180097.aspx
[7] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit. p.145
[8] Alberto Ferro era nato nel 1877 e la moglie Virginia Ferro era nata nel 1873.
[9] Giuditta Usubelli è nata nel 1928, è grazie ai suoi ricordi che è stato possibile rintracciare i nipoti dei rifugiati e ricostruire la loro storia.
[10] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit. p. 148.
[11] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit. p. 149.
[12] I dati sono tratti da Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, integrati dalle comunicazioni dell’URP del Comune di Torino che riporta i dati rilevati al censimento razziale del 1938. Archivio personale di Silvio Cavati, email dell’URP del Comune di Torino in data 20 gennaio 2021.
[13] Inventario ed elenco descrittivo degli oggetti pertinenti l’ebreo Lascar Umberto posti nell’alloggio di proprietà del signor Copasso Nicola, sito in Torino al IV piano di via Giacosa 19, Archivio Storico Compagnia di San Paolo, III. Servizio Gestioni Egeli, GES Gestione Ebraici Sequestrati, Fascicoli nominativi, 377; Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, https://archiviostorico.fondazione1563.it/
[14] I dati relativi alla famiglia di Alberto Lascar sono tratti sia da Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, arricchiti dalla copia degli atti di Stato Civile del Comune di Genova: atto di matrimonio n. 843 p. 1 dell’anno 1925 per Alberto e la moglie, atto di nascita n. 6 p. 1 dell’anno 1925 per Luciana, atto n. 1082 p. 1 dell’anno 1922 per Ermanno; tutti gli atti riportano l’annotazione di “razza ebraica” la dichiarazione è stata ricevuta dall’Ufficio di stato civile il 23 febbraio 1939 e annotata l’8 marzo. Copia degli atti è conservata presso l’archivio personale di Silvio Cavati. Purtroppo, l’archivio anagrafico del Comune di Genova è andato parzialmente distrutto a seguito dell’alluvione del 1970, e sono disponibili i dati solo a partire dal 4 novembre 1951, a quella data però i Lascar non risiedevano più a Genova (e-mail dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Genova a Silvio Cavati in data 18 gennaio 2021
[15] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit., pp. 39 e 40.
[16] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit., p. 137.
[17]Art. 8. Del D.L.L. 5 maggio 1946 n. 393 prescrive “Nel conto di gestione sono addebitate al proprietari dei beni, oltre alle spese per la normale gestione e per la conservazione dei beni, le somme erogate per la estinzione di debiti, per riparazioni e per incremento e miglioramento dei beni, ed in genere tutte le spese che i proprietari avrebbero dovuto sostenere se avessero conservato il godimento dei loro beni, nonché i compensi dovuti ai gestori, che saranno liquidati nella misura strettamente necessaria alla normale gestione. Sugli accreditamenti e sugli addebiti precedenti alla restituzione dei beni è computato l’interesse bancario di conto corrente, mentre sul saldo finale, attivo o passivo, del conto, sono computati gli interessi legali dal giorno della restituzione.”
[18] Archivio Storico Compagnia di San Paolo, III – Gestioni Egeli – Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare dell’Istituto di San Paolo di Torino, Fascicoli nominativi, 377; Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, https://archiviostorico.fondazione1563.it/.
[19] Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, mostra Le Case e le cose, le leggi razziali del 1938 e la proprietà privata, le Vite. Scheda di Emilio Artom, http://le-case-e-le-cose.fondazione1563.it/le-vite/.
[20] Aurora Cantini, Un rifugio vicino al cielo, op. cit., pp. 68 e 69.