Roberto Bruni nasce l’8.10.1914, figlio di Luigi e Maria Artifoni, fratello più piccolo di Amalia (1913) e più grande di Eugenio (1915). La famiglia è di esplicite convinzioni antifasciste che sono all’origine del licenziamento del padre dall’impiego in Comune e si leggono negli occhi della madre nella foto che la ritrae con i suoi due primi figli, giovane donna pronta ad affrontare, libera, il proprio futuro.
Crescere a casa Bruni significa imparare la libertà come qualcosa di irrinunciabile e lo spirito di ribellione di fronte a tutte le imposizioni. Quando il fascismo sembra non avere rivali, quella casa resta un luogo di dissenso, dove anche le nuove generazioni continuano a discutere di politica nonostante la routine anestetizzante della dittatura.
è forse la consapevolezza di quella superficialità, ipocrisia e passività a cui il fascismo vuole educare un intero popolo che fa di Roberto un “lupo timido e scontroso”, unico “per quei suoi estremi di odio e di amore, per quella sua inconfessata aggressività, che si manifestava nell’inquietudine dello sguardo pesante come un urto”, come dirà un amico dopo la guerra.
è certo che a casa Bruni sono progettati i primi atti di protesta contro il fascismo in città – scritte sui muri e volantini – e l’azione più eclatante: far colare sul volto di Mussolini scolpito nel monumento alla rivoluzione fascista una vernice studiata apposta, vischiosa e di colore marrone.
Per questo atto, l’11.10.1941 sono arrestati i due fratelli Bruni, Popi Taino, Virgilio Caffi, Gino Antonucci: sono portati prima a Sant’Agata, poi a Roma e il 4.03.1942 sono processati. Roberto è assolto e ritrova il fratello solo nell’agosto 1943: insieme vivono il disorientamento dell’8 settembre, “soli di fronte alla nostra coscienza”, dirà il fratello Eugenio.
Arrestati nel maggio 1944 mentre cercano di raggiungere le formazioni della val Cannobina, sono portati a Luino, a Como e quindi entrano a San Vittore il 19 luglio. Trasferiti a Bolzano il 9.10.44, un mese dopo sono a Dachau: Roberto con il numero 113156, Eugenio con il 113157. Il tifo divide le loro strade: Eugenio, malato, entra in infermeria, Roberto resta nel blocco e muore nel febbraio 1945.
A Bergamo e a città alta, che amava frequentare, Roberto lascia alcuni versi: “Te coronata di ferreo cerchio/ Alta la fronte sul grande piano/ Te guardo: città del Sogno,/ […] nave pronta per il mare veleggiando sul grande colle/ Incontro all’orizzonte,/ Porta con te il mio sogno/ E di mille giovani vite/ All’Avvenire”.