All’azione di Lovere del 29 novembre 1943 segue una dura repressione nazi-fascista, che arriva a porre lo stato d’assedio alla cittadina. La reazione nazifascista si inserisce in quella campagna della fine del 1943 tesa a eliminare l’opposizione attraverso una sistematica azione repressiva volta sia a sradicare i resistenti sia a recidere con la violenza i loro legami con la popolazione.
Dopo il colpo all’Ilva si procede ai rastrellamenti di Vigolo (30 novembre e 9 dicembre) e della Val Supine (7 dicembre) e alla caccia casa per casa di alcuni partigiani. Il rastrellamento di Vigolo del 30 novembre, pur feroce, impressiona e impaurisce la popolazione, ma i militi “non trovando nulla sono costretti ad andarsene” (“Vigolo ieri ed oggi”, 1975); al contrario quello della Val Supine ottiene il risultato sperato per la presenza di una spia (7 catturati), descritta con precisione da Valentino Fabbri e da lui indicato nel suo diario come N. V., “un nuovo venuto” il 3 dicembre.
Tra il 7 dicembre, giorno del rastrellamento in Val Supine, e la sera del 19 dicembre, quando si consegna Vittorio Lorenzini per liberare la sorella presa in ostaggio, sono fatti prigionieri in tutto 13 uomini.
Cinque giovani legati ai Gruppi Patriottici Giovanili, tutti loveresi: tre non hanno partecipato al colpo all’Ilva e sono Ivan Piana (1924) e Salvatore Conti (1922), che stanno raggiungendo la formazione, e Guglielmo Macario (detto Giacinto, Cinto, 1925), che le si è unito da pochi giorni; uno è al fianco di Brasi dal 25 settembre, Andreino Guizzetti (1924), e uno è il giovanissimo Giovanni Vender (Gianni, 1926). Il comandante Eraldo Locardi (1920), portato insieme alla moglie a San Vittore prima di essere trasferito a Bergamo, e i compagni: Giulio Buffoli (1901) di Lovere, Giuseppe Ravelli (1923) di Leffe, Mario Tognetti (1922) e Giovanni Moioli (1926) di Grumello, Vittorio Lorenzini (1925) di Telgate, Luca Nitckics, militare di origine slava proveniente dal campo della Grumellina, e Virginio Bessi (1925) di Cazzago San Martino (Bs).
Gli arrestati vengono tradotti al collegio Baroni: nessun interrogatorio formale (alcuni di loro non avevano nemmeno partecipato alle azioni del 29 novembre), torturati e detenuti fino alla mattina del 22 dicembre 1943, quando vennero prelevati per l’esecuzione. Abbiamo un ricordo straziante del sacerdote, don Mario Smacchia, il cappellano militare che li assistette prima dell’esecuzione, e che ricorda come erano stati pesantemente torturati.
Durante la prigionia al Baroni, si incontrarono i due fratelli Macario, Guido e Guglielmo, quest’ultimo verrà fucilato fra i 13 martiri. Guido aveva ventitré anni nel 1943, mentre Guglielmo 18. Così raccontò Guido di quei giorni dopo la fine della guerra: “la sala era completamente nuda, spoglia di ogni mobile, nulla, proprio nulla, solo pavimento per dormire e soffitto da guardare, una specie di scatolone bianco. La notte si dormiva sul duro pavimento rannicchiati uno vicino all’altro; dapprincipio io ero vicino a lui, mio fratello, un piccolo paletò, il mio, ci copriva. Lui non aveva nulla perché in montagna, al loro arresto, nel rastrellamento, i tedeschi e i fascisti li avevano condotti giù in paese poco vestiti e quasi scalzi. E la notte si avvicinava a me, non solo in cerca di calore ma anche per conforto reciproco. I suoi occhi si riflettevano nei miei in cerca di parole, io li guardavo : lucidi e vivi si muovevano nervosi, pieni di domande che volevano risposte”.