Preludio ai tempi nuovi che segneranno anche il territorio nazionale è la battaglia combattuta dalla Divisione Acqui nell’isola di Cefalonia.
Per decisione plebiscitaria i militari della divisione -fino a quel momento avevano goduto di una tranquilla vita di guarnigione- decidono di non cedere le armi all’ultimatum dei tedeschi dell’11 settembre e di tentare una resistenza armata, pur sapendo che non avrebbe potuto contare su alcun aiuto esterno.
La battaglia è comandata dal generale Antonio Gandin, nell’isola di Cefalonia. La divisione di fanteria da montagna è composta da 525 ufficiali e di 11.500 uomini di truppa: premuto dalle insistenze dei suoi ufficiali, Gandin invita i suoi uomini a pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. I reparti, con un referendum che costituiva un’assoluta novità nei rapporti interdisciplinari, si pronunciarono all’unanimità per la terza soluzione: combattere. Così alle ore 11.30 del 15 settembre, lo scontro ebbe inizio.
Per alcuni giorni i combattimenti vedono un alterno prevalere delle forze in campo, ma il continuo afflusso di rinforzi tedeschi e, soprattutto, un appoggio aereo quale mai si era visto, finiscono per far volgere le sorti della battaglia a favore dei tedeschi. Alle ore 14 del 22 settembre gli scontri hanno termine e inizia la strage dei sopravvissuti. Nel corso dei primi sono caduti 65 ufficiali e 1.250 uomini di truppa; nelle ore, e nei giorni successivi, a seguito delle esecuzioni sommarie dei prigionieri e dei feriti, vengono falciati dalle armi automatiche tedesche 189 ufficiali e 5.000 tra sottufficiali e soldati.
Compiuto il massacro dei prigionieri, i tedeschi tentano di far scomparire le tracce del loro crimine. Salvo una centinaia di salme, lasciate insepolte nelle gole montane (alla cui tumulazione avrebbero provveduto gli isolani greci), la maggior parte dei corpi vengono cosparsi di benzina e bruciati. Il generale Hubert Lanz, per sbarazzarsi delle salme degli ufficiali decide il loro trasporto al largo e il loro affondamento.
La tragedia della Acqui non è però ancora giunta al suo epilogo. Durante il trasporto dei prigionieri sopravvissuti al combattimento e alle stragi, tre navi urtano le mine e colano a picco con il loro carico di tremila italiani, molti dei quali, gettatisi in mare, vengono brutalmente falcidiati dalle mitragliatrici tedesche.
Sorte analoga ha la guarnigione italiana della vicina isola di Corfù, comandata dal colonnello Luigi Lusignani (medaglia d’oro al valor militare), che resiste pure eroicamente, ma che subisce uguale annientamento. Così la Acqui viene totalmente distrutta.
I massacri, sembra giusto ricordarlo, non furono opera di reparti SS o di milizia politica, ma di soldati regolari della Wehrmacht.
Non pochi erano i bergamaschi inquadrati in quella divisione: nel dopoguerra avrebbero dato vita ad una sezione provinciale dell’Associazione nazionale superstiti reduci e familiari Divisione Acqui , il cui presidente sarebbe stato il professor Pietro Raffaelli.
Nato a Bergamo nel 1915, quinto di otto figli. Dopo la maturità classica al Liceo Paolo Sarpi, si laurea nel 1939 all’Università cattolica di Milano. Membro attivo dell’Oratorio di Santa Maria delle Grazie e della FUCI. Richiamato alle armi nel 1939, presta servizio come sottotenente nella Divisione Acqui, prima sul fronte Occidentale, poi su quello greco -albanese, a Corfù. Nel settembre 1943 è catturato dai tedeschi a Merano e inviato in Germania. Rifiuta di aderire alla RSi e torna in Italia nell’agosto 1945. Si dedica all’insegnamento, ricoprendo incarichi di presidenza in diverse scuole medie. Iscritto al Movimento ecclesiale di impegno culturale (MEIC), è per un lungo periodo presidente del Consorzio provinciale di Bergamo dei Patronati scolastici. Impegnato politicamente nella Democrazia cristiana, è sindaco di Nembro dal 1956 al 1960 e vicepresidente della Provincia dal 1970 al 1975. Presidente dell’Associazione combattenti e reduci dal 1973 al 2001, ne diventa presidente onorario. Muore a Bergamo l’8 gennaio 2007.