La storia della Resistenza porta inevitabilmente a considerare la questione dell’emancipazione femminile nel nostro paese come volontà di ripensare modi e equilibri dentro la collettività.
Le donne hanno fatto la Resistenza rendendola un vero e proprio laboratorio di esperienze di partecipazione di cui l’Italia repubblicana è in un certo senso figlia; si tratta di sperimentare l’immagine da lasciare in eredità alle generazioni che verranno. È qui che tra le tante storie di donne, incontriamo quella significativa di Velia Sacchi.
All’immagine della donna che il fascismo aveva costruito e radicato nella società italiana uscita dal primo conflitto mondiale, Velia Sacchi oppone la ricerca di un ruolo che sappia dare sbocco alla sua “ansia di fare”, al suo “attivismo giovanile” e, nello stesso tempo, che scardini il “clima di repressione che le donne sentivano in generale fin da piccole, in casa e fuori” (Velia Sacchi, Io non sto a guardare, a cura di R. Pesenti, Manni, San Cesario, 2015).
Nata nel 1921 in una famiglia borghese, allieva prima del Liceo classico Paolo Sarpi e poi dell’Accademia di belle arti, giovanissima moglie e madre, Velia ha sempre pensato che “raggiungere almeno la parità, la possibilità di avere un proprio lavoro, una propria formazione anche sociale [fosse] il minimo da ottenere”. Se per questo era facile essere “prese per pazze”, proprio in questa volontà si radica il progetto di dare vita all’Associazione femminile italiana per la pace e la libertà, progetto che Velia condivide con Bianca Artifoni e Mimma Quarti, compagna di scuola questa a cui si riavvicina negli anni Quaranta.
Per Velia proprio casa Quarti, che definisce “una specie di centro di comando della Resistenza”, è il luogo d’incontro con la politica antifascista e non solo con il Partito d’Azione, che in Bruno Quarti ha uno dei suoi importanti organizzatori; infatti “durante il governo Badoglio, vivevano in questa casa anche agenti dei servizi segreti inglesi e americani; era praticamente un centro politico e militare. C’erano tutti, hanno cominciato a venire anche i comunisti usciti dal carcere”.
Nell’ansia che anima Velia si fa spazio “l’idea del cambiamento totale proposto dai comunisti”, idea che la porta ad avvicinarsi e a militare per il Partito comunista italiano. Velia si lega di amicizia con Giuseppina Callegari, moglie di Mario Mammucari (nomi di copertura: Brandani e Lorenzi) inviato dal partito a Bergamo per dargli organizzazione e peso, ed è proprio Pina ad aiutare Velia a trovare il suo modo di partecipazione alla lotta partigiana.
Attiva subito dopo l’8 settembre, Velia s’impegna tanto nell’assistenza ai prigionieri che nel tenere i collegamenti con le formazioni partigiane. Nonostante il parere contrario del partito, si avvicina alla Banda Turani ed è arrestata nella retata in cui cade la banda tradita dalla spia Strohmenger.
Bruciata a Bergamo, Velia è ospitata per qualche mese ad Alzano Lombardo, protetta da una rete solidale di operaie della Cartiera Pigna; si sposta quindi a Milano, dove lavora con Giorgio Amendola ed Eugenio Curiel per “l’Unità” clandestina e per la rivista quindicinale “La nostra lotta”.
È un’esperienza importante di formazione, studio, passione e impegno in cui non mancano i momenti di tensione dovuti proprio al rifiuto di Velia, anche di fronte ai compagni, ad essere relegata al ruolo subalterno proprio dell’immagine tradizionale della donna.
Velia porta avanti la battaglia per i diritti delle donne anche dopo la guerra: attiva prima nei Gruppi di difesa della donna, è tra le fondatrici della sezione di Bergamo dell’Unione donne italiane. Velia è infatti convinta che il ritorno alla normalità e le esigenze della ricostruzione possano insabbiare quel processo democratico per la conquista dei diritti che gli ultimi venti mesi di guerra hanno rimesso con forza in moto (V. Sacchi, Nella ricostruzione c’è posto per tutti, “Noi Donne”, edizione di Bergamo).
Dal 1946 l’Udi trova sede in quella che era stata la Casa del littorio, è stata rinominata Casa della libertà dalle donne e dagli uomini della Resistenza e diventa il centro della vita politica che rinasce in città dopo vent’anni di dittatura. Per Velia e le donne come lei che non solo si erano impegnate nella Resistenza, ma nella Resistenza avevano cercato un modo di vita diverso, era importante che le donne rimanessero unite e lavorassero per il riconoscimento pieno del loro ruolo nella società.
Dai ricordi di Velia emerge chiaramente come questa posizione non fosse condivisa dalla maggioranza, come i partiti sostenessero poco l’azione delle donne per le donne e lo stesso CLN riconoscesse l’Udi meno di quanto riconosceva i partiti.
Il ricordo di quei intensi di lavoro alla Casa della libertà è caratterizzato “ dal turbine di lavoro: eravamo arrivati al punto di dormire in ufficio, sulla poltrona, notti e notti, perché il lavoro era tanto. Eravamo fanatici, tanto che ci sembrava , che se ci allontanavamo o facevamo un’ora di meno crollasse il mondo, un mondo che credevamo di avere messo su noi, per cui ci rimettevamo anche la salute […] lavoravamo sul futuro, pensavamo di costruire una grande organizzazione, di formare tanti circoli dove le donne potessero ritrovarsi e organizzarsi e si parlasse di tante cose, in primo luogo dell’emancipazione della donna attraverso il lavoro e l’uscita delle donne dalla casa” (Io non sto a guardare, p. 49.)
Della difficoltà di fare spazio alle rivendicazione dei propri diritti da parte delle donne è già nel dopoguerra testimone lo sfratto dato all’Udi da Casa della libertà: “un prete aveva brigato molto per avere la nostra sede per qualche associazione cattolica e alla fine l’ha ottenuta: quando è arrivato con un documento ufficiale non so di quale autorità a prendere possesso della nostra sede, noi ci siamo sedute sui tavoli e non volevamo andare via. Ci hanno cacciate con la forza, portando giù i tavoli con noi sopra.”
Attivista per i diritti delle donne, giornalista e artista, Velia è tra quelle donne e uomini per cui “il tempo straordinario vissuto [nella] Resistenza al nazifascismo nei venti mesi che vanno dall’8 settembre al 25 aprile 1945 diventerà l’impegno ordinario di vite che hanno saputo tenere fede agli ideali della giovinezza senza cadere nella retorica, senza venire meno all’onestà degli intenti, senza rinunciare alla lucidità critica” (Rosangela Pesenti).
Muore a Roma il 20 febbraio 2015.