L’attenzione che gli Alleati e i comandi partigiani portano ai preparativi dell’insurrezione è segno evidente della consapevolezza che l’uscita dalla guerra non potrà essere indolore: una guerra diventata anche civile, combattuta tra italiani, non può essere immune dalla violenza accumulata nei mesi della lotta. Se gli Alleati in primis, ma anche il governo del Sud e la Chiesa guardano con timore al momento dell’insurrezione, tra i capi partigiani serpeggia la consapevolezza che l’ora della resa dei conti è arrivata e solo la capacità e la volontà di autocontrollo dei propri uomini può evitare il dilagare della violenza.
Gli Alleati insistono per avere solide garanzie affinché il disarmo e il passaggio di poteri dal Clnai al governo di occupazione militare sia rapido, ma nello stesso tempo creano una sorta di interregno lasciando che i partigiani procedano alla cattura e eliminazione di quanti da fascisti hanno usato violenza. La guerra sarà giuridicamente dichiarata finita solo con l’instaurazione dell’amministrazione alleata, che per esempio in bergamasca avviene il 2 maggio 1945, e di conseguenza tutte le azioni violente commesse nella lotta contro i nazifascisti prima di quella data sono da considerarsi azione di guerra.
Del resto non si dimentichi che la fuga finale di tedeschi e fascisti è segnata da stragi di civili, sia per vendetta contro i partigiani, che per seminare terrore e garantirsi la strada libera.
Se le colonne tedesche attraversano la periferia di Bergamo e alta è la tensione, sono diverse le testimonianze di quanti ricordano l’incandescenza di quei giorni. La caccia ai fascisti fa certo registrare episodi di giustizia sommaria, ma ha proporzioni minori rispetto ai timori iniziali.
Si pensi solo alla fine della Tagliamento stanziata nel territorio tra Bergamo e Brescia: il gruppo comando e il 63° battaglione si salvano nella loro quasi totale integrità, il battaglione Camilluccia, in parte si salva consegnando al CLN di Schilpario e solo una piccola parte (43 militi) viene fucilata al cimitero di Rovetta il 28 aprile.
La foto della cattura del famigerato comandante della 612a OP è la più conosciuta e famosa immagine della resa dei conti in bergamasca: Aldo Resmini è appena stato catturato a Valcava dai partigiani della brigata XXIV Maggio (GL). È il 19 maggio: Resimini sta raggiungendo l’automobile che lo porterà a Bergamo e lo sorvegliano Ermanno Pezzini, Antonio Malenza e Giulio Questi.
I ricordi dei tre testimoni concordano nel asserire che, scortandolo tra la folla che voleva farsi giustizia da sé, i partigiani consegnano Resmini vivo in Prefettura, nella consapevolezza però, ricorda Questi, che “era già morto”.
Due giorni dopo la cattura su “Il giornale del Popolo”, il CLN dà notizia dell’avvenuta cattura e chiude l’articolo affermando che nel tragitto verso l’ospedale, Resmini mentre tentava la fuga, è stato raggiunto da due colpi di pistola. Pochi a Bergamo credono a questa versione dei fatti e per tutti, senza imbarazzo, è da subito chiaro che Resmini era morto a causa delle percosse subite.
Oggi la necessità di confrontarsi con il periodo della resa dei conti significa cogliere fino in fondo la tragicità dell’esperienza vissuta dagli uomini e dalle donne che agirono in quella lotta di Resistenza che fu volontaria e per cui ciascuno si assunse la responsabilità di usare violenza per imporre un mondo diverso. Ad Angelo Bendotti, che da ricercatore storico su quel periodo ha sempre lavorato, Giulio Questi, ricostruendo quei giorni, aveva detto: “Certo non si poteva ammazzarli tutti” e poi, scrivendogli, aveva chiarito: “Ci sono avvenimenti che diventano subito Storia, assumendo un valore politico di così alta intensità da determinare nuove leggi e un nuovo corso per la vita di una nazione intera. Ciò che è drammaticamente accaduto diventa dibattito di idee e affermazione di valori, tutto si chiarisce e prende senso. Ma c’è un rivolo segreto e nascosto che continua a colare da quegli avvenimenti anche se lontani. Infiltrandosi nelle crepe, esso trova percorsi sotterranei nelle anime degli individui rimasti in vita. Possono essere pozze stagnanti che a volte, nel silenzio della notte e dei sogni, riaffiorano rigurgitando”.