La Resistenza è una storia locale, vissuta su quel territorio che, d’un tratto, dopo l’8 settembre, è riscoperto al di là di ogni retorica come luogo per la cui liberazione dalla violenza nazifascista uomini e donne decidono, volontariamente, di battersi. La Resistenza è stata anche un modo di spendersi per il proprio territorio e non è un caso che ogni città, ogni paese abbiano i propri eroi e le proprie eroine, figli e figlie di quella terra specifica.
Quando approcciamo però la storia della Resistenza non dobbiamo mai dimenticare che pur se storia locale, fatta dalle azioni e dai gesti compiuti su un territorio familiare a chi li compie, ha effetti che si misurano non solo a livello nazionale, ma almeno europeo. L’idea della liberazione dell’Europa dal nazifascismo anima quotidianamente la vita delle bande, delle brigate, delle staffette, di chiunque decise di non dirsi indifferente. In questa prospettiva è importante allora osservare che se i dati dicono che la maggioranza dei combattenti è originaria dei luoghi dove combatte, non dobbiamo però dimenticare quella minoranza che combatte lontano da casa, magari finendo per cadere lontano dai propri affetti, e che poi la memoria del dopoguerra ha troppo spesso dimenticato. Non si tratta di rendere omaggio solo a sacrifici vissuti, ma anche di cogliere quel nesso fondamentale e nevralgico che collega le storie di Resistenza locali a una visione del mondo che tutte hanno contribuito a realizzare.
A ricordarlo ritroviamo qui la storia Rodolfo Zelasco, classe 1924. Rodolfo è il primo dei tre figli di Giovanni, professore giunto a Bergamo dopo aver vinto la cattedra di Lettere presso l’Istituto industriale, e con lui condivide la passione per la montagna, un certo spirito di abnegazione, l’attenzione per gli altri e un rifiuto profondo per il fascismo. Giovanni si impegna fin dal settembre nell’organizzare la Resistenza e le reti per il salvataggio dei prigionieri: aderisce al Partito socialista ed è tra gli organizzatori delle Brigate Matteotti. Al suo fianco da subito c’è il figlio: studente non brillante nella scuola fascista, timido e introverso nella società fascista, ma instancabile nella propaganda antifascista e nelle operazioni di espatrio clandestino di ex prigionieri alleati e perseguitati.
Nella prima parte della sua attività partigiana Rodolfo poté agire indisturbato perché fin verso la metà di settembre poté restare a casa, avendo ottenuto regolarmente una proroga del servizio di leva perché iscritto alla sessione autunnale degli esami di maturità. Superato l’esame e ottenne il diploma, ricevette anche la cartolina di chiamata alle armi.
Rimasto per alcuni mesi nascosto in montagna, Rodolfo nel timore che il padre potesse essere arrestato come ostaggio dai fascisti e dovesse così lasciare sola la madre e i due fratelli, il 28 febbraio si presenta in caserma. Il 4 marzo è inviato in Germania per l’addestramento: la famiglia lo venne a sapere in seguito.
Rientra in Italia con la Monterosa, battaglione Tirano, destinato alla Liguria: già sul treno che lo riporta in Italia cerca di convincere i suoi compagni a tentare una fuga in massa. Appena gli è possibile raggiunge i partigiani della Divisione Coduri, con molti uomini del suo plotone convinti a seguire la sua scelta.
Diventa partigiano e caposquadra, con il nome di Barba, con generosità organizza e guida i suoi uomini; durante uno scontro con i fascisti, il 5 dicembre 1944 a Montedomenico, ferito alle gambe, comanda ai suoi compagni di ritirarsi senza perdere tempo a salvarlo e continua a sparare fino all’ultimo respiro.
Il giorno dopo, nel luogo della sua morte i compagni pongono una croce di legno e sarà il suo comandante “Virgola” a riportare la salma a Bergamo il 26 giugno 1945.
Nel dopoguerra Rodolfo riceve importanti riconoscimenti (certificato Alexander, concessione della medaglia d’argento alla memoria del valor militare, la laurea honoris causa in economia e commercio dell’Università Cattolica, dove si era iscritto dopo il Diploma).
Nel 1950 sulle pagine dell’ ”Eco di Bergamo” si celebra insolitamente l’inizio dell’anno scolastico con un articolo di Bortolo Sozzi che accomuna Zeduri e Zelasco, entrambi allievi del Sarpi caduti per la libertà.